12 anni schiavo
Un film di Steeve McQueen Articolo di Daniel Montigani
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Schiavi neri, immobili, con gli
sguardi spauriti rivolti verso l’esterno, in piedi in un punto a caso di campi di
canna. Sagome pronte, come tutti i giorni, a lavorare pressate e cavalcate da
una quotidiana disumanità, corpi che sotto i semplici, umili abiti nascondono
visibili traumi e ferite.
Presenze passive che occupano tutta questa prima inquadratura, ma non ne sono affatto padroni, bensì succubi, come se costituissero il centro di un mirino incaricato di farli costantemente soffrire. Questo “quadro” che apre il film è a dir poco significativo, è “testimonianza” della volontà di McQueen di farci entrare in medias res nello sfruttamento della schiavitù nel corso dell’Ottocento negli Stati Uniti, è l’incipit (in realtà flashforward, come si capirà poco più tardi), il primo passo in particolare della storia di Solomon Northup, nero libero di Washington, lavoratore con moglie e due figli che viene rapito e reso schiavo con l’offerta-truffa di un’occupazione in un circo. McQueen prova a far assaggiare agli occhi dello spettatore la violenza psicologica e fisica prima di tutto tramite visioni indubbiamente forti, “scabrosamente” dirette - pesante sudore prodotto da ore massacranti di lavoro, frustate, sangue terribilmente fresco o secco di ferite ingombranti, vomito, grida di dolore - ma anche con riprese castranti, soffocanti (si pensi a quelle in cui pulsa forte la presenza umiliante di alcuni oggetti interni al quadro che provano a rendete l’idea degli schiavi come corpi e menti fisicamente e psicologicamente oppressi). In mezzo a tutta questa “esagitata civiltà bianca”, infatti, lo schiavo - il protagonista, in particolare - non riesce a trovare conforto nemmeno nella natura, qui vista come una sorta di grosso mostro inglobante e accerchiante che sembra aver istintivamente stabilito un patto con gli sfruttatori (indicativa a tal proposito nella prima sequenza la soggettiva “affaticata” del protagonista che si fa spazio attraverso le pesanti canne del campo). Si rimane indubbiamente “feriti” di fronte a tutta questa violenza, ma tale esposizione di soprusi psicofisici non turba veramente nel profondo lo spettatore, poiché l’intero film non è quasi per niente supportato da una vera idea di cinema, da uno sguardo personale, è percorso da una fotografia ingessata, imbalsamata, ‘borghese”, ordinaria, impone una sorta di retorica a base si sentimenti da blockbuster melodramma, con attori indubbiamente bravi ma spesso troppo eccessivi per risultare pienamente convincenti. E quando tutto questo girare di sangue e dolore urlato non è nutrito internamente da un vero stile il tutto forse finisce per diventare un po’ gratuito e, quasi paradossalmente, poco efficace. Film intrisi di Hollywood fino al delirio come questo dovrebbero apprendere un po’ l’”economia dell’urlo”, ovvero capire che per cercare di esprimere il dolore più lancinante non è affatto necessario mostrarlo tutto fino all’esasperazione. Insomma, non poche volte traumatizzano molto di più certi (bei) film europei o asiatici con scene in cui la violenza avviene inesorabilmente fuori campo. In questo che è sicuramente il film meno interessante di McQueen va forte un paradosso un po’ rattristante: tanto eccesso, tanto di molto accompagnato da una generale inconsistenza cinematografica. Daniel Montigiani
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Aldo Pardi, Claudia Landolfi, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Enrico Pastore, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Francesco Panizzo.
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