I due alieni più famosi degli anni ‘80, Starman e E.T., sono nati in qualche modo da una stessa cellula, cioè dai progetti della Columbia Pictures.
Dopo il successo di Close Encounters of the Third Kind di Spielberg, nel 1977, la major cercò subito altre collaborazioni col regista, uno Spielberg che però era corteggiato da molti altri, soprattutto dalla Universal, e subiva una “forza di attrazione” molto forte verso un executive della Warner Bros., Steve Ross, per Spielberg vera e propria figura paterna. Spielberg offrì alla Columbia uno script, Night Skies, formalmente top secret, ma le cui idee vennero chiacchierate assai a Hollywood, rendendolo un vero segreto di Pulcinella. Night Skies era una variante della classica casa stregata, con gli alieni al posto dei fantasmi, e con una famiglia, chiusa in una abitazione, vittima degli attacchi degli invasori spaziali. Nonostante la tanta insistenza di un nuovo soggetto con Spielberg, la Columbia tira per le lunghe su Night Skies, per diversi motivi: primo perché Close Encounters aveva fatto successo, ma non così tanto; secondo perché Michael Douglas, altro suo rampollo (dai tempi di The China Syndrome, successo del ‘79), tra i tanti film in cantiere (incluso Romancing the Stone) aveva anche lui per le mani un soggetto di fantascienza, appunto Starman.
Spaventata dalla tanta offerta fantascientifica, forse stanca di vedere Spielberg più attratto da altri studio, e in un periodo in cui Spielberg aveva sì brillato con Close Encounters ma anche fatto serio flop con 1941 (‘79), la Columbia vende Night Skies proprio a Universal e tiene per sé Starman, sentendo Night Skies come un qualcosa che Spielberg vuole tenere più “infantile” possibile, mentre Douglas presenta Starman come adatto anche a un pubblico più adulto. In Universal, ambiente dove il flop di 1941 pesa ancora di più (ne era la major distributiva), Night Skies viene comunque vivisezionato, tanto che Spielberg decide di abbandonare il progetto così come lo aveva concepito e di ricavarne due script: uno che sarà E.T. - con l’alieno che “tormenta” la famigliola ma in senso positivo e che Spielberg lavorerà con Universal in prima persona - l’altro che sarà Poltergeist (poi venduto alla MGM con Tobe Hooper assunto come regista: Hooper tolse ogni residuo di fantascienza trasformando in fantasmi gli “assedianti” della famiglia). Tutto questo mentre le idee di Night Skies circolavano dappertutto, così tanto da far diventare quello che fu un film mai realizzato quasi una sorta di archetipo del film fanta-horror hollywoodiano: il soggetto di Night Skies si può rintracciare in tantissime pellicole, dai Critters (di Stephen Herek, ‘86) a Signs (di M. Night Shyamalan, 2002). Dopo aver sezionato Night Skies in due, Spielberg però va veloce. Con Tobe Hooper sul set di Poltergeist, che lo toglie da tanti impegni riferibili a quel progetto[1], Spielberg gira E.T. contemporaneamente, sicuro e lesto, anche grazie al successo di Raiders of the Lost Ark che nel frattempo arriva nel 1981 a spazzare via le ultime paure del flop di 1941. In Columbia, invece, Starman boccheggia. Lo script primigenio di Bruce A. Evans e Raynold Gideon viene dato in mano al regista Mark Rydell, che comincia a riscriverlo del tutto con Dean Riesner a partire dal 1981. Douglas non apprezza i cambiamenti, licenzia Rydell, e aggiunge al reparto letterario anche Ed Zwick e Diane Thomas, con la quale sta scrivendo anche Romancing the Stone. Appunto quest’ultimo progetto porta via tempo a Douglas, lasciando Starman sguarnito di una testa decisionale e in balia di varie riscritture proprio mentre E.T., al contrario, viene ultimato, ed esce, con grande successo, nel 1982. Douglas si rende conto che E.T. e Starman condividono una vicenda totalmente identica e tutti i registi che riesce a coinvolgere (Adrian Lyne e John Badham) alla fine non accettano per via di queste identità. Anche perché E.T. non è stato solo un “grande successo”, ma si è rivelato un enorme fenomeno cult in tutto il mondo, il film con più alto guadagno di tutti i tempi (record che ha detenuto per 11 anni, fino al Jurassic Park dello stesso Spielberg): come sarebbe stato possibile andargli dietro? Tra l’anno ‘82 e ‘83 Peter Hyams e Tony Scott lavorano molto a Starman e sono loro a cercare in tutti i modi di diversificare la vicenda da E.T., con Dean Riesner, di nuovo, al lavoro sulle riscritture. Quando anche i loro approcci falliscono (Hyams puntava a fare un film di fantascienza classica, magari con l’alieno cattivo, mentre Scott si interessava totalmente al visivo trascurando il narrativo, arrivando a concepire sistemi di ripresa molto costosi), Douglas assume un John Carpenter ansioso di lavorare dopo il brutto flop di The Thing (‘82). Carpenter trasforma Starman in un road movie dagli intratesti della Hollywood classica (It happened one night, ‘39), cosa che entusiasma un Douglas che, proprio mentre anche Romancing the Stone trova un regista (Robert Zemeckis), gli affida totalmente il film. Ma intanto è il 1984, ed E.T. imperversa già da due anni. Concepiti nella stessa pancia della Columbia, E.T. e Starman hanno avuto destini diversi: E.T. ha finito per fagocitare qualsiasi altro film di fantascienza fino almeno a Indipendence Day di Emmerich (‘96), dopo il quale gli alieni ricominciarono per un po’ a rappresentare una minaccia alla Terra, mentre Starman è rimasto quasi dimenticato da un fandom di Carpenter più attratto dai suoi film horror invece che dai suoi tanti esperimenti in altri generi. Eppure è ancora visibile la matrice comune di E.T. e Starman nelle equivalenti derivazioni da Close Encounters, archetipo di entrambi gli script. Perfino certe maestranze di Starman sono comuni a Close Encounters (gli scenografi, Daniel Lomino e Joe Alves, sono gli stessi). Da Close Encounters deriva l’idea di un alieno quasi “religiosa”, pronta a dare conforto agli umani[2]: una religione che E.T. smaschera ampiamente, con tanto di metafore cristologiche (E.T. muore e risorge, e forse si fa della stessa materia degli umani “estendendo” le sue azioni al bambino Elliot), ma che si conserva anche in Starman nel concepimento di un bambino alieno, che sarà un messianico insegnante capace di manovrare gli aggeggi benevoli alieni (le sferette di luce portate da Starman) onde portare pace alla Terra. Inoltre, la svolta on the road, scovata da Carpenter per diversificare Starman da E.T., non fa che avvicinare ancora Starman a Close Encounters, dal quale deriva l’idea di una forza aliena che “spinge” gli umani verso un pezzo desertico dei più profondi Stati Uniti. Eppure le ritrosie su un Night Skies “infantile” rispetto a uno Starman più adulto, che portarono la Columbia a tenersi Starman, sebbene abbiano determinato un disastro economico (Starman non è stato un flop ma neanche un successo), si possono comprendere alla luce dei film ultimati. E.T. rimane, ancora oggi, un film per bambini. Un Bildungsroman un po’ sacrale in cui un Gesù alieno, pur con tragiche catarsi, ispira la fede in una vita futura a ragazzini devastati dal divorzio. Starman parla invece di tematiche “adulte”: la vera protagonista è Jenny Hayden (Karen Allen) che vediamo all’inizio barcamenarsi con l’elaborazione di un lutto, la morte del marito, in una disperazione tutt’altro che infantile. Anche il figlio messianico offertole da Starman sembra quasi più fatto per dare a Jenny qualcosa di concreto, capace di farla continuare a vivere, un concreto che “va oltre” alla fede che E.T. lascia ai bambini: una voglia di concretezza tutta “adulta”. E se E.T. deve vedersela con un agente governativo (Peter Coyote) sì entrante e virulento ma anche totalmente solidale con i protagonisti e probabilmente anche bonario con l’alieno stesso (partecipa perfino allo “spettacolo” della partenza di E.T.), l’agente Fox (Richard Jaeckel) di Starman è completamente ostile sia con Jenny Hayden sia con Starman, per il quale ha preparato il tavolo da vivisezione. In tutto il finale di Starman la minaccia del governo all’inseguimento è tutt’altro che pretesa, con elicotteri da guerra che sparano e uno sfacelo di mitragliatrici che colpiscono. In questo frangente, Carpenter accelera molto sull’idea adulta di Starman facendo vedere i poliziotti che cercano di scassinare l’auto privata di Jenny e che le sparano senza tanti complimenti. Siamo ben lontani dai, tutto sommato, benevoli poliziotti di E.T. che sì minacciano con le armi i ragazzini fuggitivi, ma non sparano un colpo (cosa che ha permesso a Spielberg di autocensurarsi, trasformando, con la CGI, i fucili in walkie-talkie nella riedizione del 2002). Dopo lo sparo dei poliziotti, Jenny viene resuscitata da Starman senza alcun motivo cristologico annesso, ma con tanta carica filosofico-politica sulla pericolosità dell’umanità e non dell’alieno, assunto ben in linea con tanta fantascienza anni ‘50 e che Carpenter riassume spesso nella sua filmografia, molte volte derivata da tematiche di Howard Hawks, che usava il western per ribadire la crudeltà umana. Carpenter sfida Spielberg nel collocare a livello adulto anche una grossa tematica di E.T.: il metacinema. Nonostante E.T. viva di questo aspetto, l’aura “cinematografica” che Carpenter dona a Starman non è da meno. Un’istanza di riflessione sul mezzo che, di nuovo, entrambi i film derivano da Close Encounters. In E.T. Spielberg continua quella riflessione in modo ludico e adatto ai bambini, mentre Carpenter lavora più su suggerimenti “alti”. Certamente E.T., così visibilmente trucco (di Rambaldi), così attratto dal western (che vede in TV), così bravo nei travestimenti (che si moltiplicano nella versione del 2002), è un cinema davvero conclamato, ma anche Starman non si sottrae per niente dal manifestarsi in magici truka (spesso “aureolato” dai contorni brillanti), anche lui guarda la TV (si sofferma assai sull’elaborare la sua storia d’amore con Jenny riflettendola in From Here to Eternity) ed entra in scena con una prolungata soggettiva (molto simile a quella che presenta Michael Myers in Halloween), e la sua visione coinvolge molto Jenny Hayden con numerose inquadrature dei suoi occhi. Le implicazioni del metacinema in E.T. e Starman si riflettono in una complessa idea di rapporto con la realtà. In E.T. i ragazzini dichiarano che quella che vediamo è la realtà (Elliott erompe prorompente nel dire «This is reality, Greg!») subito prima che la rutilante scena dell’inseguimento delle biciclette dimostri tutti i suoi stacchi di montaggio, si svolga tra case in costruzione del tutto simili a set, e illustri delle biciclette che volano.
Spielberg sembra non farsi problemi nel sovrapporre realtà e fantasia, poiché trova proprio in E.T., nel cinema, la componente che conforta, e ne fa appunto una fede, che travalica in miracoli la “verità”. Cinema e realtà, in E.T. convivono la stessa sostanza, in un segno assai benevolo, tanto che si può dichiarare realtà anche la più costruita e inverosimile finzione. Spielberg ha proprio fede che l’immaginazione sia realtà, e vede in questa fede qualcosa di positivo.[3] Starman invece usa la presenza dell’alieno non come conforto ma come momento di critica dell’umanità. E infatti Carpenter, nel finale, allude quasi che la venuta di Starman, e la sua salvezza, possano solo essere un’immaginazione dell’uomo, agita per elaborare il lutto e foriera di riflessioni tutt’altro che consolanti.
Poiché se E.T. ha indiscutibilmente un happy ending, con l’astronave che lascia addirittura l’arcobaleno nel cielo, visto da tutti (tante le inquadrature in proposito), con tanti suggerimenti di catarsi (vedi il pianto della madre abbandonata), e con la conclusione su un Elliott piangente ma quasi fiero, pronto a crescere (con tanto di stacco sul buio a tempo di musica: un espediente che scrive quasi un The End grosso come una casa sulla pellicola), Starman, invece, intorbida le cose.
Carpenter non arriva a dare conforto benevolo a una sola famiglia, ma fa riflettere sulla natura violenta dell’essere umano (Jenny e Starman hanno a che fare non solo con la polizia dal grilletto facile ma anche con una poco simpatica banda di cacciatori: Starman che resuscita un povero cervo ucciso per gioco), con Jenny forse sineddoche dell’intera umanità, che rimane quasi “sconvolta” dal contatto con l’alieno, per nulla consolata. Una volta entrata in contatto con l’astronave di Starman, per Jenny la realtà si “decompone” molto sinceramente, senza le ingenuità di Spielberg: Jenny e Starman sono avvolti in una sorta di magma rosso-bluastro, non proprio “oggettivo”. Una sorta di luogo amniotico in cui Jenny non capisce quello che sta succedendo, e quando l’astronave di Starman parte non c’è un’audience come quella che Spielberg ha regalato a E.T., ma c’è solo Jenny, lì a guardare, da sola. Se E.T. diventa palesemente cinema, con tanto di pubblico, un cinema che ha consolato Elliott, Starman è invece motivo di riflessione per Jenny, e di turbamento. E se la partenza di E.T. si palesa del tutto finta di luci e arcobaleni, quella di Starman è negata: noi non la vediamo, vediamo solo Jenny che guarda, e mentre osserva torna sempre più verso la realtà: i colori rosso-blu della nave di Starman si decolorano e tornano via via a essere colori realistici, come se dal cinema si tornasse alla vita vera. Ma ci si torna senza consolazioni, senza grafitiche, ma solo con tanti dubbi: solo il messianico figlio di Starman saprà cosa fare della sferetta fantascientifica del padre (un segreto della vita?), e nessuno riuscirà a fare i conti con la violenza dello stato. Jenny guarda in su mentre il cinema diventa vita senza che niente ci suggerisca che il film sia finito: se Williams e Spielberg urlano la demarcazione tra diegesi e vita con lo stacco in nero ritmato ad accordo finale, Carpenter e Jack Nitzsche (e Starman è uno dei pochissimi suoi film di cui Carpenter non si scrive la musica da sé) fanno scorrere sì i titoli, ma comunicando, in montaggio e musica, che il film/vita continua: adesso è il film/vita di tutti i giorni, da vivere con la consapevolezza di essere soli, in un mondo violento e senza alcuna idea di come andare avanti. È forse questa intelligenza di fondo, questo sicuro rifiuto di edulcorazione della realtà, che rendono Starman più adulto rispetto a E.T., e rendono l’idea di cinema di Carpenter più aperta alla riflessione rispetto all’idea di Spielberg. Poiché se E.T. si affida a una ben definita finzione per consolarsi e magari per autoingannarsi (viste le dichiarazioni di realtà su azioni del tutto irreali), Starman suggerisce che la finzione, molto ibridata con la realtà, aiuta solo a riflettere, senza fornire effettive risposte (e lo Starman di Carpenter non ci fornisce neanche un nome proprio: lo si chiama Starman giusto per identificazione col titolo).
E.T. è quasi un cinema dell’autoinganno, di chi sa che quello che vede sullo schermo è finto ma decide di considerarlo vero per consolarsi: E.T. è quasi una catarsi allopatica, un capire se stessi vedendo qualcos’altro. Mentre Starman rappresenta un cinema che, con una finzione molto più sibillina (tanto che quasi coincide con la realtà), non consola e non insegna ma aiuta soltanto a riflettere su quel che non si sa e sulla nostra stessa natura: Starman è quasi una catarsi omeopatica, un capire se stessi vedendosi rappresentati. A livello planetario ha vinto E.T., ma anche Starman avrebbe meritato qualcosa in più, nonostante i suoi evidenti difetti narrativi (è un film in ogni caso frutto di infinite riscritture), certe ingenuità (l’indecisione di tono tra solarità comica, serenità ecumenica sulla bellezza intrinseca della vita sulla terra e contraria riflessione malevola sulla crudeltà umana) e diverse lungaggini (per esempio tutta la parte a Las Vegas). Nicola Bianchi
Note:
[1] L’effettiva “paternità” registica di Poltergeist è comunque dibattuta: nonostante i formali divieti di Universal, secca nel far valere la sua esclusiva per E.T., Spielberg fu presente sul set di Poltergeist quasi tutti i giorni. [2] Sono ovvi i riferimenti religiosi anche nella fantascienza anni ‘50, vedi l’interpretazione cristologica di Klaatu in Day Day the Earth Stood Still (di Robert Wise, 1951). [3] Nella poetica di Spielberg tali tematiche sono costanti: nell’episodio The Mission, della serie Amazing Stories (‘85), si manifesta nella realtà un cartone animato tanto immaginato e desiderato da un personaggio. Scrivono in PASSPARnous: Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Gloria Chesi, Francesco Panizzo. |
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