LICORICE PIZZA
Un film di Paul Thomas Anderson
Articolo di Nicola Bianchi
In tempi di carenza energetica, Paul Thomas Anderson rievoca la crisi petrolifera del 1973, condendola con alcune riflessioni sulla società imprenditoriale americana, e confezionando il tutto come un emozionatissimo film sentimentale.
Licorice Pizza sembra iniziare là dove American Graffiti di George Lucas (girato appunto nel ‘73 ma ambientato negli anni ‘60) finisce: evidenti sono i calchi visivi di Anderson, e del suo direttore della fotografia Michael Bauman, nei confronti delle immagini di Lucas (lavorate con Haskell Wexler), a partire dalla gestione delle scene notturne e dalla “bruciatura” dei colori. Anderson, però, usa una macchina molto più mobile e illustra in maniera più corposa l’emotività e l’afflato amoroso che investe i personaggi.[1] Un’emotività adolescenziale e giovanilistica che non è gratuita, poiché è usata da Anderson come “correlativo oggettivo” della imperante infantilizzazione della società americana, che si riflette anche nella gestione del business, visto più come un gioco di bambini che come impresa adulta. |
Licorice Pizza descrive l’amore tra Alana e Gary, lei quasi 30enne e lui poco più che 15enne, in un tripudio di goduriosi piani sequenza, volatili e leggeri, ritmati dalla colonna sonora rock e glam (tanto da poter addirittura far catalogare il film come musical), e tutti impegnati a sottolineare qualsiasi sospiro, voglia, prurigine e ormone dei ragazzi, che vivono il loro innamoramento in mezzo all’amministrazione Nixon e alla nascita della New Hollywood, quando i produttori cinematografici da esperti banchieri o da autentici uomini di cinema si trasformano in ex sciampisti amanti delle dive[2], e quando i grandi attori esagerano con il metodo dell’Actor’s Studio, confondendo performance e vita.
La dicotomia tra la maturità di Alana e la svagatezza puberale di Gary è il perno del film, che Anderson incunea nella descrizione sociale e lavorativa americana di quel tempo. Nonostante la sua giovane età, Gary, dopo un’esperienza come attore in una sitcom, riesce a trovare mille lavori e lavoretti, agendo apparentemente da vero businessman, contrattando franchise, vendite e commercio all’ingrosso e al dettaglio (di materassi e giochi da arcade), senza però mai riuscire a guadagnarsi una vera sicurezza economica, anzi, ogni volta usando il denaro incassato per divertimenti irrazionali bambineschi, o per status symbol buoni solo per i ragazzini di una banda di quartiere. Alana si dispera di questo atteggiamento, ma anche lei, nonostante si renda conto della sua maggiore maturità, non riesce a smarcarsi dall’infantilismo che tale situazione economica comporta. I lavori, «presto vinto e presto persi», che i due conducono sono per natura precari, passibili di fluttuazioni di mercato, di colpi di testa d’impresa, e di una instabilità cronica del mercato del lavoro tenuta tremolante apposta per garantire un ricambio di forza lavoro continuo adatto ad allestire una apparente vitalità delle offerte quando invece è solo copertura della disoccupazione endemica, fatta di tanti lavoretti ma nessun lavoro vero. Per Alana, donna, la questione è ancora più difficile in anni in cui l’unica maniera per emanciparsi era sposarsi. Per un attimo sembra trovare un equilibrio tra maturità e lavoro partecipando alla campagna elettorale di un candidato sindaco progressista, ma quella campagna è complicata poiché anche il candidato, all’apparenza duro e puro, è vittima egli stesso del soffocamento della società, spietata nel privato come lo è a livello economico: Alana capisce che il candidato non potrà mai vincere poiché nasconde la sua omosessualità, e quindi non è coerente con i suoi principi di liberazione e progressismo, e ancora più drammatica è la costatazione che il candidato non potrebbe fare altrimenti che nascondere la sua natura nel mondo bigotto degli USA dei 70s. Questo grande dramma della disillusione e dell’infantilismo imposto a una società stagnante e oppressiva è però vissuto da Anderson con la sinusoide di amore e odio che si riserva ai grandi momenti della Storia, quella sinusoide che Charles Dickens usa per designare gli anni della Rivoluzione Francese in A Tale of Two Cities: «It was the best of times, it was the worst of times». Per Anderson, quegli anni peggiori non possono far altro che finire per essere, nel contempo, anche gli anni migliori, poiché, per forza di nostalgia, quegli anni rappresentano per i protagonisti l’inizio della vita “vera”, gli anni in cui la chimica dell’amore li ha travolti, esattamente quando poteva travolgerli, cioè negli anni anagrafici tra i 15 e i 30 anni. Anderson riesce a traslare gli eventi pubblici della critica all’economia da cul de sac infantilista americana anni ‘70 nella glorificazione degli eventi privati di un’innamoramento, forse dicendo che nella congiunzione tra universale e particolare, un universale di dolore e un particolare di gioia, si può ottenere una sorta di equilibrio taoistico dell’esistenza da cui si può dedurre perfino una speranza. Questa idea tematica è illustrata perfettamente da Anderson a livello di stile visivo. I piani sequenza di Licorice Pizza usano tutti i dettagli possibili: primissimi piani, immagini di immagini, specchi, luci, colori, occhi, mani, acqua, lampioni, fuoco, buio: tutto quanto è messo da Anderson davanti a noi a contribuire al movimento di macchina, e tutto quanto è parte integrante del movimento di macchina. Un modo cinetico che fa magicamente scaturire il tutto (cioè il long take) dall’insieme delle parti (tutti i dettagli), che scivolano velocemente all’interno dell’inquadratura continua e insieme sbrindellata da vari e invisibili stacchetti che passano ancora su altre inquadrature continue, ritmate dalla musica, come se Anderson fosse una sorta di Dreyer danzante.[3] È un taosimo dello stile che riflette il taoismo speranzoso della vicenda del film. In questa mobilità della macchina, così diversa dall’essenzialità di American Graffiti, e nella ricerca della speranza di sublimazione del lerciume della società, Anderson rovescia le istanze dell’ipotesto American Graffiti e riesce a trovare perfino un lieto fine. Se Lucas sentiva, con la fine degli anni ‘60, e con il Vietnam imminente, la paura della fine dell’adolescenza privata, che era la paura per una fine dell’adolescenza universale, di un’America che si apprestava a cadere nell’imperialismo, Anderson invece si augura di riuscire ben presto a smarcarsi dall’adolescenza oppressiva appunto dell’imperialismo, e della crisi economica cronica che comporta, ed entrare in una “età adulta” di maturità sentimentale, o, almeno, di consapevolezza personale di ottimismo della volontà da contrapporre al pessimismo della ragione. Anche per questo Anderson lavora volando con la macchina da presa, muovendosi velocemente e con long take capaci di unificare il tutto e le sue parti, mentre Lucas aveva lavorato con frammenti, frame e stacchi che non producevano un tutto, ma che si disperdevano nella disillusione. Questione individuale e di gusto è quella che riguarda quale ottica preferire, se l’elegia del tempo andato di Lucas o la fiducia nel futuro, pur consapevole dello sfacelo del presente, di Anderson. Senza dubbio, però, la capacità espressiva e insieme riflessiva di Anderson, capace di inquadrare il presente riflettendolo in un passato usato per costruire una storia fiduciosa nel futuro, sorprende per lucidità, saggezza tecnico-artistica, e scavo ermeneutico di un’America alla ricerca di equilibrio. Nicola Bianchi
Note:
[1] Curioso notare come il citazionismo da American Graffiti, usato per costruire una vicenda amorosa, sia evidente anche nell’anime Orange Road, in italiano È quasi magia Johnny, diretto da Osamu Kobayashi nel 1987: nell’episodio 27, i protagonisti si trovano a vivere situazioni molto simili a quelle descritte da George Lucas, anche in ambienti desunti dal film del ‘73, per esempio il Mel’s Drive In. Inoltre, Orange Road ha un esibito sentimentalismo molto simile a quello esposto in Licorice Pizza. [2] In una non piccola porzione di Licorice Pizza, Bradley Cooper interpreta Jon Peters, arraffone “cinematografaro” che portò il business nella produzione del Batman di Tim Burton nell’’89 e che venne bandito, a causa delle sue incompetenti ingerenze e dei suoi assurdi colpi di testa, dai set del Colore viola di Spielberg e del Rain Man di Levinson. Un personaggio già alla base del parrucchiere interpretato da Warren Beatty in Shampoo di Hal Ashby (‘75), e i cui disastri, perpetrati soprattutto quando riuscì a diventare presidente della Sony Pictures, sono descritti in Nancy Griffin, Kim Masters, Hit and Run: How Jon Peters and Peter Guber Took Sony for a Ride in Hollywood, New York, Simon & Schuster, 1996. [3] Uno stile da paragonare per certi versi a quello di Abdellatif Kechiche, ma dalle implicazioni “narrative” più alla Paweł Pawlikowski. Scrivono in PASSPARnous: Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Gloria Chesi, Francesco Panizzo. |
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