Il regno di Lars von Trier:
The Kingdom Exodus (2022)
Articolo di Gloria Chesi
Trent’anni fa, nel 1992, la televisione di stato danese, chiedeva a Lars von Trier di lavorare ad una serie televisiva insieme a Niels Vørsel, con il quale aveva già collaborato per le sceneggiature della trilogia europea conclusa l’anno precedente[1]. L’idea iniziale del regista era quella di una storia di fantasmi. Non tanto un film horror, ma una di quelle pellicole con «personaggi evanescenti che passeggiano sullo schermo»[2] senza troppi effetti speciali. Pensando alla genialità del Belfagor televisivo (C. Barma, 1965) nell’ambientare una storia dell’orrore nel museo simbolo francese, scelse di collocare la vicenda al Rigshospitalet di Copenaghen, uno dei più grandi ospedali danesi, soprannominato Riget (Regno) dai cittadini. Nasceva così The Kingdom, Riget in patria.
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La trama fu sviluppata rapidamente, adottando un processo di «scrittura automatica»[3]. La necessità di accelerare tutte le fasi di lavorazione portò i due collaboratori a non rileggere il testo e a non scartare nessuna idea, anche la più banale. Trier fece ricerche sull’ospedale nazionale e scoprì che in molti avrebbero potuto raccontare storie incredibili ed esperienze paranormali, soprattutto sui lunghi corridoi lugubri del seminterrato[4]. Vørsel si dedicò alle ricerche nel campo dello spiritismo, dell’esoterismo e altri fenomeni occulti. Il manoscritto fu consegnato nell’aprile del 1993 e le riprese furono terminate, insieme a Morten Arnfred, in tre mesi. Effettuati i dovuti tagli, i quattro episodi furono montati come film unico per la première del 6 settembre 1994 alla 51a Mostra del Cinema di Venezia e per la proiezione danese all’Imperial di Copenaghen qualche giorno più tardi. Successivamente furono trasmessi in televisione dalla DR nel periodo prenatalizio.
Il manoscritto di Riget 2, invece, fu terminato nel febbraio del 1996 e le riprese furono effettuate nell’estate dello stesso anno. Ancora una volta i quattro episodi furono montati in un unico lungometraggio per la première del 5 settembre 1997 alla 54a Mostra del Cinema di Venezia, per poi essere trasmessi dalla televisione danese in ottobre. La trama fu sviluppata rapidamente, adottando un processo di «scrittura automatica»[1]. La necessità di accelerare tutte le fasi di lavorazione portò i due collaboratori a non rileggere il testo e a non scartare nessuna idea, anche la più banale. Trier fece ricerche sull’ospedale nazionale e scoprì che in molti avrebbero potuto raccontare storie incredibili ed esperienze paranormali, soprattutto sui lunghi corridoi lugubri del seminterrato[2]. Vørsel si dedicò alle ricerche nel campo dello spiritismo, dell’esoterismo e altri fenomeni occulti. Il manoscritto fu consegnato nell’aprile del 1993 e le riprese furono terminate, insieme a Morten Arnfred, in tre mesi. Effettuati i dovuti tagli, i quattro episodi furono montati come film unico per la première del 6 settembre 1994 alla 51a Mostra del Cinema di Venezia e per la proiezione danese all’Imperial di Copenaghen qualche giorno più tardi. Successivamente furono trasmessi in televisione dalla DR nel periodo prenatalizio.
Il manoscritto di Riget 2, invece, fu terminato nel febbraio del 1996 e le riprese furono effettuate nell’estate dello stesso anno. Ancora una volta i quattro episodi furono montati in un unico lungometraggio per la première del 5 settembre 1997 alla 54a Mostra del Cinema di Venezia, per poi essere trasmessi dalla televisione danese in ottobre. Fin dalle prime fasi di lavorazione von Trier sperimenta nuovi approcci, in completo contrasto con i tempi e i modi da lui abitualmente impiegati per la realizzazione di un lungometraggio, che andranno ad influenzare irreversibilmente le scelte artistiche successive. Il mutamento che investe il suo modo di fare cinema è radicale, basti considerare le differenze visive tra Europa (1991) e Breaking the Waves (1996). La realizzazione di Riget e la successiva sperimentazione di Dogma 95 rappresentano passi decisivi per la perdita del controllo, quasi maniacale nei suoi primi lavori. Le modalità tecniche ed estetiche che caratterizzano tutti gli episodi della miniserie sono associate alle condizioni imposte dalla produzione. In cinquanta giorni tutto il materiale per costruire quattro ore di storia doveva essere girato. Il regista decise così di sovvertire certe regole, usando metodi eterodossi. Riget è un prodotto sperimentale sotto molti aspetti, dove prevale l’intenzione di fare qualcosa di estemporaneo e spontaneo. Nessuno storyboard e nessuna impostazione di ripresa fu determinata prima di iniziare. Gli attori recitavano le scene senza interruzioni, ripetendole anche quattro o cinque volte con leggere variazioni. Avevano provato le battute nei giorni precedenti alle riprese ma senza stabilire i movimenti, i gesti e le espressioni. Il fotografo (Eric Kress) conosceva la sceneggiatura ma non il modo in cui sarebbero state girate le scene, così improvvisava nel modo che riteneva più opportuno. Spesso la stessa scena veniva filmata dai quattro angoli dello spazio. L’operatore poteva muoversi liberamente a 360° grazie all’assenza di cavi, mentre il fonico stava spesso disteso sul pavimento per non entrare nelle inquadrature. Gli attori portavano, nascosti nei vestiti o nei capelli, mini microfoni wireless, che inviavano l’audio registrato ad una stanza esterna. Allo stesso modo la camera inviava il segnale video alla sala di controllo, dove Trier e Arnfred visionavano in tempo reale[3]. Le riprese furono effettuate con la luce naturale disponibile sul set, con il principio: «se possiamo vedere possiamo filmare». Per le scene di spostamento, ovvero quelle in cui i personaggi camminano lungo i corridoi, girate in 35 mm, fu impiegata una steadycam mentre per la maggior parte delle sequenze girate all’interno di stanze, girate in 16 mm, fu utilizzata la camera a mano. Molte di queste sequenze sono caratterizzate da immagini dinamiche, dall’aspetto quasi documentaristico, aumentato in fase di montaggio da salti e disturbi casuali. Impossibile non intravedere in queste scelte i primi passi verso i metodi elaborati qualche anno più tardi con il manifesto di Dogma 95. Solo le scene con i fantasmi sono state girate in modo convenzionale, con l’ausilio della doppia esposizione. In molti casi la regola dei 180°, sinonimo di continuità visiva, è “violata” e abbonda l’utilizzo di jump cut. I colori distorti e le immagini sgranate invece sono il risultato del processo di color grading e del riversamento delle riprese su pellicola in digitale. In una storia di fantasmi ambientata al Rigshospitalet di Copenaghen i personaggi principali sono coloro che tutti i giorni popolano la struttura: medici, chirurghi, infermieri, inservienti, e naturalmente pazienti. Gli elementi tipici della soap opera che vivacizzano costantemente la trama mostrano relazioni amorose e giochi di potere tra le varie gerarchie professionali. I personaggi di Riget sono stati ideati seguendo la logica dell’irreale. Sono parodistici, a tratti comici, con lati caratteriali volutamente esagerati e sotto molti aspetti, lontani dalla realtà. Molti atteggiamenti di medici e primari sono evidentemente discutibili, ma la critica al sistema sanitario e ospedaliero danese rimane un elemento di secondo piano; più semplicemente è una critica agli esseri umani, costantemente indecisi tra il Bene e il Male. Il fatto che i personaggi coinvolti siano dottori e luminari della scienza, spesso messi in ridicolo, è strettamente legato al luogo in cui la vicenda si svolge. All’inizio di ogni episodio un breve prologo introduce il lato misterioso e sovrannaturale dell’intera storia. Lo spettatore, prima di entrare in contatto con la vita ospedaliera, conosce il cupo passato di quel luogo. La voce narrante, con tono grave e andatura lenta, accompagnata da immagini a rallentatore, racconta che il suolo sotto la struttura è stato un tempo un’antica palude in cui lavoravano gli sbiancatori. Quel luogo freddo e umido è diventato, dopo la costruzione del moderno edificio, il centro nevralgico della scienza, dove medici e studiosi rinnegano ogni possibile forma di spiritualità, eleggendosi padroni della vita e della morte. Questa introduzione preannuncia evidentemente il genere della serie avvisando dell’imminente ritorno di un mondo sepolto nel passato, fatto di apparizioni sovrannaturali e fantasmagoriche, collocando la narrazione nel ventre del cinema dell’orrore. Conosciamo poi la signora Drusse (Kirsten Rolffes), la medium ipocondriaca che svolgerà una vera e propria indagine seguendo tutti gli indizi legati ai fenomeni paranormali, il nuovo neurochirurgo svedese Stig Helmer (Ernst-Hugo Järegård) che fin dal primo giorno a Copenaghen manifesterà il suo odio verso i danesi con lunghi monologhi liberatori sul tetto dell’ospedale e tutti gli altri personaggi che animano il macrocosmo di Riget. Durante i titoli di coda, con un sipario chiuso alle spalle, compare anche il regista in abito elegante che commenta l’episodio appena concluso e ringrazia gli spettatori che sono rimasti a guardare.
Riget è un esempio di formato televisivo postmoderno. Oltre alle soluzioni estetiche originali, fa convivere una struttura narrativa classica, che alterna tensione/risoluzione del conflitto, accorpando generi molto distanti fra loro. Riesce ad alternare il thriller/horror parapsicologico, la commedia popolare con caratteri parodistici e lo stile documentario sulla vita ospedaliera di tutti i giorni. Il lato horror è evocato dalla doppia esposizione, dai lamenti di Mary, dall’occhio diabolico e dai bisbigli degli spiriti. Mentre la commedia popolare è presente nei difetti comici di alcuni personaggi, come lo studente svogliato (Mogge), la segretaria stupida (la segretaria di Helmer) e il principale autoritario (Helmer), caratteri stereotipati della cultura danese. Le due stagioni hanno riscosso un notevole successo in patria e all’estero ma a causa di alcuni ritardi di produzione gli episodi conclusivi non furono mai girati, soprattutto a causa della morte di alcuni dei personaggi principali (Ernst-Hugo Järegård nel 1999 e Kirsten Rolffes nel 2000). Nell’intervista diretta da Stig Björkman, von Trier parla di una conclusione crudele, più horror rispetto alla seconda parte, in cui alcune situazioni terrificanti introdotte in Riget si erano evolute in maniera più parodistica e comica[4]. Dopo 25 anni dalla messa in onda dell’ultimo episodio di Riget 2, von Trier torna con la stagione conclusiva, presentata alla 79a Mostra del Cinema di Venezia lo scorso primo settembre, in un unico lungometraggio di quasi 5 ore. Sin dalla prima sequenza il confine tra finzione e realtà è molto labile. Entriamo nella casa di un’anziana signora e attraverso i suoi occhi e il suo televisore vediamo le ultime immagini della versione in dvd di Riget 2. Attraverso i suoi incubi osserviamo quelle più raccapriccianti e seguendola ci ritroviamo precisamente davanti alle porte scorrevoli del Rigshospitalet.
Quando Karen Svensson (Bodil Jørgensen) varca la soglia riconosciamo l’inquietante leitmotiv, l’immagine viene ricolorata da un filtro opaco e caldo e il formato, fino a quel momento in 16:9, si trasforma in 4:3. La porta del regno torna ad aprirsi e questa volta si spalanca verso un punto di non ritorno. Ricompare l’introduzione con la palude degli sbiancatori e poi la sigla con la musica di Joachim Holbek, in cui scopriamo i nuovi volti insieme a quelli già conosciuti del cast originario. Al termine della sigla prosegue la contaminazione tra realtà e finzione: Karen chiede se può parlare con la signora Drusse ma il portiere le risponde che non esiste nessuna signora Drusse e che quella maledetta serie tv ha danneggiato la reputazione del Regno per colpa di quell’idiota di Trier. E così torna anche l’ironia, che attendeva dietro l’angolo. A questo punto lo spettatore è pronto: la nuova protagonista è ormai all’interno, mancano pochi giorni a Natale e tutto sta per ricominciare davvero. Proprio come la vecchia medium, Karen inizia a vagare per i corridoi dell’edificio senza controllo e riesce ad ottenere un posto letto in neurochirurgia. La mattina seguente conosciamo il nuovo neurochirurgo, il dr. Helmer Jr. (Mikael Persbrandt), figlio del vecchio primario Stig Helmer, che atterra con un elicottero in conflitto con le procedure dell’ospedale danese e si presenta come uno dei migliori dottori svedesi. Ancora una volta il tempo di ogni episodio è scandito dai dialoghi metaforici della coppia di lavapiatti (interpretati qui da Jesper Sørensen e da un robot con voce femminile) dalle inquadrature aeree sull’ospedale e dai monologhi di Helmer Jr. contro il nonsense danese. Ma anche dai commenti finali del regista, che questa volta preferisce parlare dietro al sipario e lascia in primo piano una corona natalizia. In questi cinque nuovi episodi la trama scorre fluida, concludendo alcune vicende aperte nelle prime stagioni e sviluppandone nuove sempre più oscure. Karen la sonnambula, insieme all’inserviente Bulder (Nicolas Bro), mette insieme i nuovi indizi ragionando secondo la logica della vecchia Drusse. Accompagna lo spettatore in un vortice carico di dettagli inquietanti alla ricerca di Lillebror (Udo Kier), che troviamo in questo capitolo conclusivo nel ruolo di Custode del portale, immerso nelle proprie lacrime nello spazio velato delle paludi degli sbiancatori.
Forse i buoni questa volta sottovalutano quanto la presenza diabolica sia ormai radicata nell’ospedale? Il signore delle mosche (Willem Dafoe) ha già corrotto gran parte dello staff della struttura e diversi doppelgänger si aggirano nei corridoi con ghigni sinistri seguendo i suoi ordini. Chi sarà più scaltro questo Natale? Il monito inciso sulla spada della statua di Ogier il danese che Karen incontra appena scesa nei sotterranei è da subito molto chiaro: Guarda e impara. l’Esodo è una spada a doppio taglio. Chi ha visto le prime due stagioni sa bene quanto sia difficile spiegare in breve la trama multiforme di questa serie e neanche è lo scopo primario di questo testo. L’unica soluzione è visionarla più di una volta. Sono sicura che gli appassionati non rimarranno delusi da ciò che è stato creato nel calderone di Lars von Trier, a patto che siano disposti ad accettare il Bene e il Male. Per ricevere la sorpresa più consistente bisogna restare fino alla fine. Gloria Chesi
Note:
[1] In originale «automatskrift». P. Schepelern, Lars von Triers Film. Tvang og befrielse, København, Rosinante, 2000, p. 169. [2] Seminterrato che von Trier aveva già visitato per Epidemic (1987). Ivi. [3] P. Schepelern, Lars von Triers Film. Tvang og befrielse, København, Rosinante, 2000, p. 176. [4] L. von Trier, Il cinema come dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Milano, Mondadori, 2001, p. 160. Scrivono in PASSPARnous: Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Gloria Chesi, Francesco Panizzo. |
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