Nei pessimi tempi che corrono, il constatare quanto il potere “manipoli” l’immagine per ricavarne un’opinione a fini propagandistici è un’operazione quotidiana. Ed è più di un centinaio d’anni che il cinema ci avverte sul considerare questa nefasta prerogativa del potere con attenzione. Essendo il cinema stesso un’arte dell’immagine assai consapevole della sua “fintezza” è adatto a rappresentare la “manipolazione” in maniera quasi naturale, tautologica, perfino. Qualsiasi film è un monito a guardare con attenzione tutte le immagini che lo compongono per trovarci i trucchi e le “impossibilità”[1], appunto come aiuto a considerare assai labile la rete di percezioni che chiamiamo “realtà”, così da poter “decifrare” quella “realtà” il meglio possibile; e quando il cinema utilizza questa sua natura intrinseca per illustrare proprio gli inganni del potere escono film tutti da recepire e somatizzare. Prendiamo, a solo titolo di esempio, due titoli che appaiono adatti a indagare l’oggi: uno è Moloch di Aleksándr Sokúrov, 1999 e l’altro è il classico If…. di Lindsay Anderson, 1968. Entrambi presentano la loro situazione iniziale in un modo che sembra il più possibile realistico: una situazione iniziale che si affaccia al pubblico come “normale”. Eppure si capisce ben presto che quella situazione è afflitta da problemi, ha qualcosa che non va: è una situazione dittatoriale, una situazione in cui il potere agisce, appunto con manipolazione, con prevaricazione e poi con violenza. E per renderci consapevoli di questo, Sokúrov e Anderson usano le immagini come indizio di malessere: immagini che insinuano sensi nascosti, non immediati, quasi subliminali, in ciò che si vede, in ciò che a prima vista sembra normale. Moloch racconta di una vacanza di Hitler a Berghof, vicino Berchtesgaden, con Eva Braun, Martin Bormann e i coniugi Goebbels.[2] È subito esplicito nel farci percepire un’atmosfera insana in sottotesto. Si apre con Eva Braun, sola a Berghof, che danza nuda mentre aspetta l’arrivo degli ospiti (Hitler, Bormann e i Goebbels): tutto sembra realistico, ma Sokúrov immediatamente costruisce un’immagine non cristallina già nell’incipit. Le mura di Berghof (riimmaginate con lo scenografo Sergej Kokovkin), sono accarezzate da una luce molto “plastica”, più da quadro che da film, e anche se appaiono solide e fascinosamente austere, si vede subito che sono completamente sghembe, quasi pendenti. Per di più Sokúrov mette in chiaro che gli ospiti saranno costantemente spiati dai servizi segreti nazisti per garantire la sicurezza del Führer, tanto che il film avrà moltissime soggettive dai mirini delle spie. Con questi indizi, Sokúrov riesce subito a dirci che le cose non quadrano, che ci sono elementi strani in mezzo alla visione, elementi strani che stigmatizzano quanto la vita che si sta conducendo a Berghof sotto Hitler abbia serie problematiche nascoste.
Per farci intendere che le cose vanno male, Anderson, rispetto a un Sokúrov più “storico” nei riferimenti culturali (l’Espressionismo anni ‘20), usa elementi quasi surrealisti, in contesti tutt’altro che “storici”, finendo per ottenere quasi sfumature parodiche. Per esempio, If…. è scandito da quelli che apparentemente sono episodi conchiusi, presentati da serie didascalie, didascalie che però non producono un senso preciso, quasi come quelle, volutamente provocatorie, di Un chien andalou di Luis Buñuel (1929).[5] E se Sokúrov modella le inquadrature internamente, per renderle intrinsecamente oblique, Anderson, almeno all’inizio, sembra costruire immagini semplici, diegetiche, e preferisce suggerire il senso di oppressione con una sorta di scombinamento del montaggio: gli episodi di If…. proseguono giustapposti in modo che appare lineare, ma invece è molto tortuoso: ben presto risulta difficile seguire una trama: anche se le inquadrature appaiono diegetiche, quella diegesi comunque sfugge per via dell’astruso montaggio, che si “diverte” a non far corrispondere esattamente il prima e il dopo necessario alla narrazione.[6]
Andando avanti col film anche Anderson palesa la situazione opprimente del potere nonnista optando per uno scollamento visivo: molti episodi sono lasciati in bianco e nero, senza alcuna logica: cioè le scene in bianco e nero non hanno apparentemente nessuna ragione di esserci se non nell’indirizzare lo sguardo verso la follia della situazione di prevaricazione della scuola. Dopo aver stabilito il tono dei loro film, i registi proseguono mettendo il turbo nel rendere i loro film sempre più perturbanti. Per far capire che il potere hitleriano aleggia su Berghof, Sokúrov punta a rappresentare anche gli scagnozzi nazisti come dei veri “demiurghi” malsani della visione: solo loro stessi a “provocare” il montaggio del film: in almeno due occasioni gli stacchi forieri di un cambiamento di ambientazione sono agiti da Martin Bormann che si avvicina violentemente alla macchina da presa, causando il nero dello stacco.
Una volta scoperto che le pratiche nonniste sono endemiche nella scuola, e si è suggerito che potrebbero forse arrivare ad abusi sessuali, Anderson comincia a presentarci una fazione ribellista, guidata da un personaggio chiamato Mick Travis, impersonato da Malcom McDowell.[8]
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Per sottolineare questo, Sokúrov ha la controversa idea di rendere Hitler inconsapevole dell’esistenza di Auschwitz, suggerendo che la soluzione finale fu tutta opera dei suoi scagnozzi (e Sokúrov rende Bormann uno degli operatori nazisti più pestilenziali). Una idea che da molti fu criticata per via della probabile assoluzione di Hitler. Invece il togliere da Hitler la responsabilità dello sterminio ebreo gli toglie anche la comoda funzione di capro espiatorio: è comodo dire «fu tutta colpa sua» quando era l’intera società a essere intrisa di razzismo. Fare di Hitler solo un agente di un potere inconscio deformato e marcio (come deformate e marce sono sempre di più le immagini di Moloch) è «dare la colpa» a tutto il genere umano, in toto complice dello sterminio. Un potere così inconscio e interiore da spersonalizzarsi e quindi universalizzarsi nel genere umano tout court (e la Berghof di Sokúrov funziona bene come simulacro di inconscio universale).
Sokúrov sublima questo discorso riuscendo anche a rendere l’idea della vergogna di Eva Braun di essersi innamorata a Hitler: in una delle inquadrature più significanti di Moloch, Eva scompare come un effetto speciale una volta capita la follia del suo amato. Eva scompare nella vergogna come tutta la cultura degli anni ‘20, come tutto l’Espressionismo, reo di essersi colluso con l’istanza marcia del potere mentale nazista.
Con quel sorriso forse si comprende che l’intento di Anderson, più che riflettere sulla natura psichica del male, è ammonire[13] la società prevaricante che, se continua a sussistere, causerà solo reazioni di ulteriore violenza, con le vittime che si tramuteranno in carnefici.[14] Un ammonire “parodistico” che è un grande topos della cultura inglese dai tempi di Swift.[15]
Nel suo discorso sul potere, If…. forse sorprende di più per la sua precocità (il ‘68) e perché è un film comunque di industria anche se british (a distribuirlo fu addirittura Paramount), mentre Sokúrov è un film tutto sommato underground (anche se sono evidenti tracce di una lavorazione non lineare: la versione internazionale di Moloch ha alcuni tagli rispetto a quella russa[16]). Ma tutti e due scelgono di esprimere nelle loro immagini il lavorio del potere. Moloch ne palesa le traumaticità psichiche universali e If…. ne indaga gli effetti nefasti sulla società: come se Moloch fosse una riflessione “interiore” sull’effetto che il potere ha sull’animo del singolo, e in sineddoche di tutto il mondo, là dove If…. invece ne indaga le implicazioni sull’etica e sul contratto sociale: come se Moloch fosse hegelianamente una tesi sullo spirito e If…. una kantiana antitesi sulla “capacità di giudizio” tra bene e male. Di sicuro tutte e due le pellicole usano benissimo le capacità cangianti e poliedriche delle immagini cinematografiche per rendicontare quanto il potere, qualsiasi esso sia, agisca direttamente sulla realtà, quanto la deformi e la strazi, in costruzione, in forma e in materia. Ed entrambi i film, ci dànno tutti gli strumenti, rifacendosi alle grandi avanguardie storiche, Espressionismo e Surrealismo, ancora attualissime, per vederci chiaro in tali meccanismi di manipolazione. Entrambi i film denunciano, appunto con le valenze semiche delle immagini del cinema, quanto il potere finisca sempre per essere terribile, sia in farsa (Anderson), sia in tragedia (Sokúrov). Nicola Bianchi
Note:
[1] Inutile ricordare i tabù individuati da André Bazin, ormai 60 anni fa, come cartine di tornasole per saggiare la “fintezza” del film, e cioè la morte e il sesso: quando li vedi sullo schermo smascheri tutta l’essenza di finzione dell’immagine. Cfr. André Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, 4 voll., Paris, Éditions du Cerf, 1958-1962 e l’interessante Paula Quigley, Realism and Eroticims: Re-Reading Bazin, in «Paragraph», XXXVI/1 (march 2013), Edinburgh, University Press, 2013, pp. 31-49. [2] È il primo film che Sokúrov ha dedicato ai potenti del Novecento, in una sorta di trilogia: all’Hitler di Moloch sono seguiti Teléc (Taurus) su Lénin (2001) e Sólnce (Il sole) su Hirohito (2005). Sokúrov considera anche un quarto capitolo, a concludere la trilogia come un dramma satiresco classico: Faust (2011), Leone d’oro a Venezia. [3] Ovviamente mi riferisco a Siegfried Kracauer, From Caligari to Hitler: A Psychological History of the German Film, Princeton, University Press, 1947, tradotto in italiano da Leonardo Quaresima: Da Caligari a Hitler : una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001 poi 2007. [4] Benché segni di “contestazione” ante-litteram siano evidenti già dagli anni della Beat generation, Anderson, in Inghilterra, anche se giunge un anno dopo il Bonnie and Clyde di Arthur Penn e The Graduate di Mike Nichols (entrambi del 1967 ed entrambi americani), anticipa altri classici tematicamente vicini come The Strawberry Statement di Stuart Hagmann (1970). [5] Anderson ha dichiarato apertamente un’ispirazione da Zéro de conduite di Jean Vigo (1933). Gli episodi di If…. scanditi dalle didascalie sono 8: College House Return, College Once Again Assembled, Term Time, Ritual and Romance (riferimento a Jessie Weston?), Discipline, Resistance, Forth to War, Crusaders (che era il titolo provvisorio di If….). [6] Ancora utile è l’analisi del film fatta da Albert Johnson su «Film Quarterly», XXII/4 (estate 1969), Berkeley, University of California Press, 1969, pp. 48-52. [7] L’aggettivo che la critica ufficiale usa di più per descrivere i film di Sokúrov è amniotico. [8] Anderson e McDowell dedicheranno a Travis altri due film dopo If….: O Lucky Man! (‘73) e Britannia Hospital (‘82). Quando Kubrick lasciava McDowell privo di indicazioni registiche in Arancia meccanica (‘71), esagerando nell’ad libitum, l’attore chiedeva di nascosto consigli telefonici a Anderson! Cfr. John Patterson, Malcom in the Middle, in «The Guardian» del 1° novembre 2007 e soprattutto lo stesso McDowell nell’articolo The Man Who Gave Me a Slap in the Face, ancora sul «Guardian», 3 settembre 2004. [9] Lo è anche a livello musicale: il suo “inno” è il Sanctus della Missa Luba congolese, che risuona quasi rinfrescante rispetto alle degradanti messe occidentali cantate nel college. Il lavoro di Anderson di riimpasto della cultura britannica non è minore rispetto alla riimmaginazione della cultura tedesca operata da Sokúrov: If…. ha anche lui un sacco di ipotesti, dalla poesia September 1, 1939 di Wystan Hugh Auden («Those to whom evil is done / Do evil in return») ad appunto la poesia If di Rudyard Kipling, al poeta che c’è per “ammonire” («to warn») di Wilfred Owen. Aggiungo che Sokúrov utilizza Les Préludes di Liszt esattamente come Anderson usa la Missa Luba: sono i temi conduttori musicali dei film. [10] I motti amati da Travis e i suoi derivano da frasi pronunciate o scritte da Che Guevara, Geronimo, Lénin, ma sono citati quasi alla rinfusa e fuori contesto. [11] Quello finale di Mick Travis è un sorriso quasi “leonardesco”, che tanto ha ispirato il cinema attuale: vedi le sequenze finali dei film di Ari Aster, Midsommar (2019) in primis. [12] Sia Benny Hill sia i Monty Python fecero parodie di If…. nella televisione britannica. [13] E qui c’è il riferimento al «to warn» poetico di Wilfred Owen. [14] E qui arriva Auden con «Those to whom evil is done / Do evil in return». [15] Un contraltare americano di If…., molto più recente, ma con lo stesso intento ammonitore riguardo ai pericoli della polveriera sociale delle High School ricche di prepotenza e razzismo è Higher Learning (L’università dell’odio) di John Singleton (1995). [16] Alcuni sono tagli drammaturgici con l’eliminazione di una scena tra Eva e la moglie di Goebbels quasi identica alla rimasta, ma altri sono meno comprensibili: la scena centrale della scampagnata sui monti, in cui Hitler fa giochi quasi scatologici, si stenta a comprendere nella versione internazionale che la seziona in diversi punti significanti. Scrivono in PASSPARnous: Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Caterina Perrone, Francesco Panizzo. |
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