Ultimamente tutti stanno abusando del termine resilienza, nato per dire «rimbalzare» in latino e finito per designare qualsiasi cosa rimanga com’è dopo un colpo, un trauma, un urto, nei linguaggi di tantissime discipline, dall’architettura alla psicologia al marketing.
Piano piano, resilienza ha finito anche per indicare la capacità di adattarsi all’ambiente, il talento di flettersi, aggiustarsi e risultare più forti nell’attraversare ristrettezze e cambiamenti esperiti, più che il rimanere come si era. È proprio nel senso di adattarsi che la parola resilienza si può usare riferendosi a diversi grandi “autori” del cinema industriale americano, cioè a quei pochi artisti che hanno saputo districarsi tra successi economici e fallimenti (tra hit e flop) per tanti anni, perfino alcuni decenni, e che ancora oggi lavorano a Hollywood. Martin Scorsese, Steven Spielberg, Ridley Scott sono alcuni di questi artisti, tutti nati intorno al 1940 (Scott è del ‘37, Scorsese del ‘42 e Spielberg del ‘45), riusciti a sopravvivere in un circuito industriale da loro stessi riformato e rifondato, intorno al ‘68, dopo le grandi crisi degli anni ‘60. Molti dei loro amici, coetanei e importanti complici della New Hollywood (la rifondazione culturale e insieme industriale del sistema produttivo americano), infatti, già da anni sono stati definiti “scaduti” (come lo yogurt) dalle major da loro stessi “salvate” nel ‘68-‘70. L’ultimo film di Francis Ford Coppola, per esempio (classe 1939 e davvero tra i principali artefici della New Hollywood grazie ai successi del Padrino del 1972 e del 1974), risale al 2011 e non è un prodotto diretto di una major ma un film quasi indipendente, e per trovare un contratto di Coppola con una grande casa distributiva bisogna risalire addirittura al 1997 (a The Rainmaker, etichettato Paramount). Neanche William Friedkin (classe 1935), Brian De Palma (1940) o Peter Bogdanovich (1939) sono sopravvissuti alle intemperie dell’industria: Bogdanovich, grande teorico del cinema e grosso “azionista” della New Hollywood con titoli come The Last Picture Show (‘71) e Paper Moon (‘73) ebbe precocissimi problemi già negli anni ‘70 e l’ultimo suo successo hollywoodiano, Mask, risale al 1985; Friedkin, supersonico regista di grandi hit (The French Connection del ‘71 e The Exorcist del ‘73) ha resistito come un leone ai suoi tanti flop1, riciclandosi tra tv e film su commissione fino al Killer Joe del 2011, rimasto il suo ultimo lavoro cinematografico, arrivato quando già da decenni si era arreso e aveva cominciato a fare il regista di opere liriche; e De Palma, enorme contributore all’industria con Carrie (1976), prima trasposizione cinematografica di un bestseller di Stephen King, non è più riuscito a lavorare in America dal flop di Black Dahlia nel 2006 (ha fatto un altro paio di coproduzioni europee molto sofferte a livello di finanziamenti), complice anche un ostracismo politico dovuto alla sua opposizione alla Guerra in Iraq del 2003 (opposizione incarnata nel mockumentary Redacted del 2007). Invece, Scott, Spielberg e Scorsese sono ancora lì, a lavorare, e non solo, dopo la morte del vecchio Richard Donner (classe 1930), avvenuta nel luglio del 2021, sono loro il gotha delle major, quasi gli ultimi rimasti dei grandi vecchi in attività in una Hollywood che ha già incoronato Quentin Tarantino, Christopher Nolan, Zack Snyder e Denis Villeneuve come monarchi assoluti del mercato. A differenza di Coppola, Bogdanovich, De Palma o Friedkin, Scott, Spielberg e Scorsese sono sopravvissuti a Hollywood proprio perché hanno avuto resilienza, hanno cioè avuto la capacità di adattarsi, di districarsi e di “insinuarsi” nelle strette maglie dell’industria. Questo significa, certo, che Scott, Spielberg e Scorsese sono stati, per certi versi, più aperti al deal contrattuale economico: in un modo produttivo che voleva il film accompagnato da operazioni crossmediali di consumo, un film affiancato a giocattoli, libri o dischi dalle grandi compagnie del tempo libero che nei ‘60-‘70-‘80 avevano comprato le case di produzione2, Scott, Spielberg e Scorsese (soprattutto Spielberg) sono stati ben felici di rendere le loro pellicole degli spot adatti all’affare, spot per occhiali da sole, lenzuola, mutande, coperte, vestiti, o videoclip per questo o quell’artista musicale a libro paga. Ma è anche vero che la loro sopravvivenza a Hollywood non è dovuta solo al loro inginocchiarsi al denaro, anzi, la loro resilienza si spiega proprio con una capacità di adattamento che è stilistica oltre che economica: cioè Scott, Spielberg e Scorsese sono ancora qui sulla cresta dell’onda dell’industria, dopo 50 anni, non solo perché vendono bene, ma perché hanno saputo plasmare le loro modalità di ripresa e la loro “artisticità” nelle più diverse maniere, capaci di riferirsi ai diversi gusti e alle diverse mode dei diversi decenni, pur rimanendo sempre riconoscibili e peculiari, unici. Loro sono davvero esempi di resilienza da manuale. Se Spielberg è ancora al top del gradimento hollywoodiano per economia (ha addirittura fondato e diretto una major, o almeno una minimajor, la DreamWorks, che non ha sfondato ma ha comunque ottenuto diversi successi tra 1994 e 2006), e Scorsese è al top per critica (da tanti anni si contende con Aleksandr Sokurov l’incoronazione di «più grande regista vivente»), Scott è ancora nella A list degli ingaggi solo per stile, poiché tantissimi sono stati i suoi flop, alcuni davvero disastrosi. Uno stile scottiano evidente e riconoscibile durante tutti i tanti anni di carriera, ma maturato ben presto, per giunta in prodotti per nulla cinematografici. Quando i suoi coetanei come Coppola o Friedkin esordiscono alla regia alla fine degli anni ‘60, Scott non trova lavoro nel cinema, ma fonda un’azienda di pubblicità britannica. Azienda che impiega altre future stelline registiche del Regno Unito (per esempio Alan Parker, classe 1944, come Spielberg). Scott è titolare di questa azienda (la RSA: Ridley Scott Associates) e fa molto successo nel 1973, con uno spot per una compagnia britannica di pagnotte, costituito da un ragazzo addetto alla consegna porta a porta del pane in quello che sembra l’inizio del Novecento: si vede il ragazzo trascinare la sua bicicletta col cesto del pane su per una faticosa salita, e poi gioire della consegna avvenuta tornando indietro in discesa: una voce fuori campo avverte che il pane pubblicizzato e venduto nel 1973 è genuino e autentico come quello portato dal ragazzo a inizio secolo. Il tutto ambientato in un villaggetto che più british non si può (nella campagna di Shaftesbury) e con l’elegiaco motivo del secondo movimento della sinfonia Dal nuovo mondo di Dvořák a fare da colonna sonora. Mentre Scott gira questo spot, il di lui 7 anni più giovane Spielberg ha già per le mani un lungometraggio (Sugarland Express) dopo un più che promettente esordio televisivo (Duel, del 1971); Friedkin, più vecchio di Scott di due anni, ha già molti film all’attivo, l’Oscar alla regia per The French Connection (‘71) e sta girando The Exorcist, pronto a diventare un successo mondiale; un altro regista inglese, John Boorman (classe 1933: solo 4 anni più vecchio di Scott), dopo grosse gavette alla BBC, è ormai un regista cinematografico navigato (Boorman, nel ‘73, ha già girato 5 film, uno, Deliverance, già prodotto di successo hollywoodiano). Scott è in ritardo, ma, a differenza di Spielberg, di Friedkin e di Boorman, ha il suo stile già perfettamente “pronto”: lo spot del pane del 1973 ha in sé tutte le caratteristiche visive che Scott userà in tutti i suoi film per 50 anni. È uno spot in costume, attentissimo ai particolari storici, forte di precise citazioni pittoriche (si riconosce per lo meno Vermeer nella composizione visiva che mostra il ragazzo rifocillarsi dopo il lavoro con il panettiere suo principale), e per nulla timoroso di ricorrere a tutti i particolari “anti-realistici” a disposizione per insaporire l’immagine a livello di edonismo estetico alla ricerca del supposto “bello” (vedi la brillantezza splendente della strada di pietroni su cui il ragazzo viaggia in bicicletta), cose che producono un interessantissimo mix di grande realismo verosimile, evidente nella certosina ricostruzione storica, e svago visivo completamente decorativo del tutto estraneo al “vero”: un mix molto simile a certo “realismo immaginoso” presente nei pittori fiamminghi, tipo, per esempio, in Jan Van Eyck e che in Scott usa identico nel suo ultimo film, The Last Duel. Subito a inizio carriera, quindi, Scott sfrutta le sue conoscenze artistico-scenografiche (lui che, in primis, è scenografo, diplomato alla Royal College of Art) in un sistema rappresentativo personale che lo accompagnerà, mutatis mutandis, per sempre, e fin da subito, nei suoi spot, che Scott continua a girare in parallelo al cinema, siano essi fatti per vendere computer (uno dei più redditizi ingaggi della RSA è il lancio del computer Mac della Apple, nel 1984), automobili o occhiali, egli garantisce questo sistema visivo, adattissimo a “nobilitare”, con istanze visuali più esteticamente attraenti (adatte anche a rendere più appetibile il prodotto venduto), la comunicazione pubblicitaria. Quando arriva a dirigere un lungometraggio, The Duellists, nel 1977, il mix “configurativo” (uso il termine così come lo intende Paolo Bertetto in Lo specchio e il simulacro, Milano, Bompiani, 2007) di Scott è rimasto lo stesso, denotando uno Scott quasi come Giacomo Puccini, i cui sistemi compositivi sono sempre stati quelli dei suoi primi anni (a livello di tecnica, Turandot del 1924 è assai simile a Bohème di quasi 30 anni prima, e molti sono gli studi che trovano nei primissimi pezzi scolastici di Puccini melodie poi “riprese” anni dopo: studi certo non giovanissimi, come per esempio quelli di Claudio Casini degli anni ‘70, ma ancora non smentiti del tutto dalle evidenze documentali rintracciate successivamente). La compattezza stilistica di Scott avrebbe potuto bruciarlo subito, come è successo ai suoi colleghi già visti (vedi il perfezionismo tecnico di Friedkin che affossa Sorcerer nel ‘77), poiché un intelligente e colto mix di artisticità e verosimiglianza storica, pur confacente alle produzioni pubblicitarie, non si adatta per niente alle velocità e ai ritmi dell’industria cinematografica narrativa, specie americana, dove, come affermava La mia banda suona il rock di Fossati, saper «fare tutto è un’esigenza». Un rischio che corre immediatamente anche Spielberg che, dopo due film sostanzialmente uguali (Duel e Lo squalo), vira bruscamente su altri generi appunto per rendersi più appetibile alle major: la fantascienza di Incontri ravvicinati e il demenziale di 1941. Anche Scott si concentra molto sulla fantascienza (Alien del 1979 e Blade Runner del 1982), ma ecco la differenza sostanziale della resilienza stilistica di Scott: a differenza di Spielberg, Scott rimane pressoché identico nel metodo là dove Spielberg muta quasi del tutto. In Incontri ravvicinati, Spielberg abbandona il ritmo serrato e di solida precisione impresso dalla montatrice Verna Fields ai suoi primi film (Lo squalo, di cui fu anche aiuto-regista, e Sugarland Express) e opta per una gestione molto più “metaforica” e metacinematografica delle sue immagini in contesti che diventano sempre più “astratti” in un dialogo tra verosimiglianza e metacinema sempre più raffinato seppure continuamente ancorato alla logica narrativa del cinema industriale, un dialogo dove la luce dei fotogrammi sarà sempre più luce proiettiva e riflessiva sul cinema (proprio François Truffaut, attore per Spielberg in Incontri ravvicinati si dirà entusiasta di lavorare con uno dei primi registi che applica la sua riflessione all’immagine, al cinema stesso, poiché è cresciuto con le immagini a portata di mano, magari anche grazie alla TV, là dove Truffaut, con i suoi coetanei, si è formato prima sulla letteratura che sulla visione: questa gestione metaforica, Spielberg la ottiene con anni e anni di ricalibrature, limature ed esperienze3, in maniere più simili a come Giuseppe Verdi ottiene l’unione tra discorso musicale e discorso narrativo, un’unione piena solo in Falstaff nel 1893 ma già identificata nel Macbeth del 1847 e poi “ricorsa” da Verdi in tutta la sua carriera. Spielberg è come Verdi: cambia per raggiungere uno scopo, un fine stilistico a cui tendere per sempre, magari con la consapevolezza di non riuscire mai raggiungerlo davvero. Spielberg e Verdi hanno un’idea di stile più che uno stile vero e proprio, idea che perseguono, all’infinito, senza quasi mai essere soddisfatti se non nell’estrema maturità (e Spielberg sono anni, almeno da Munich, del 2005, che quell’idea di stile crede di averla raggiunta, tanto da aver quasi smesso di cercarla). Scott, invece, come abbiamo detto, è come Puccini: Scott sembra sapere quello che fa, o meglio, sembra sicuro che il suo sistema è già pronto per adattarsi a tutto, è già in sé resiliente. E infatti, Scott rimane com’è. Pur nella quasi caleidoscopica varietà di soggetti e generi affrontati (dopo Blade Runner si occupa di fantasy, poi fa tre polizieschi di fila, quindi film storici, Kammerspiele, commediole, peplum, film di guerra, spy stories, thriller, noir), Scott applica i suoi metodi e fa film sempre pieni di verosimiglianza esatta e quasi “pedissequa”, pregni di un realismo qualche volta perfino ostentato che però si accompagna con un decorativismo estetizzante, stilizzato, spesso poggiato su esempi pittorici ben riconoscibili. Negli anni, il metodo di Scott si è solo via via gigantizzato, grazie ai budget sempre più alti, ma è rimasto del tutto identico (ed è anche plasmato da più di 20 anni dalle stesse maestranze: solo 5 volte, dal 2000 in poi, Scott ha cambiato direttore della fotografia, e solo una volta quel cambio è stato “definitivo”, quello tra John Mathieson, preferito dal 2000 al 2013, e Dariusz Wolski, conosciuto appunto nel 2013 e ancora “in carica” nei gusti scottiani) e l’oscillazione tra film riusciti e meno riusciti di Scott si ha solo perché quel metodo attecchisce più o meno bene in certe trame (anche qui regge il paragone con Puccini, che ha fallito davvero solo quando la trama gli tramortiva un po’ le sue possibilità di combinazione motivico-tematica). Solo 1492, del 1992, si può considerare un boost della carriera di Scott, poiché in quella produzione milionaria internazionale, soprattutto europea, Scott ritrova davvero, dopo gli anni fantastico-polizieschi, la vena storica ed epica dello spot del pane e di The Duellists, e riesce a smarcarsi dai fallimenti critico-finanziari dei film girati tra 1993 e 1997 proprio con quella resilienza stilistica che i suoi colleghi più anziani come Coppola e Friedkin ebbero meno. Un flop così grosso come L’albatross (del 1996) e una figuraccia critica come quella di G.I. Jane (‘97) sono paragonabili ai disastri che occorsero al Coppola di Un sogno lungo un giorno (‘82) e al Friedkin di Sorcerer (‘77) e avrebbero potuto affossare Scott per sempre, ma ecco la resilienza: un soggetto come il Gladiatore e la fortuna del suo trionfo economico consentono a Scott di andare avanti altri 20 anni, e non solo, lo rendono un qualcosa di sicuro, tanto che a Hollywood gli si affidano, nonostante i suoi quasi 85 anni suonati, anche scommesse d’affari importanti, con grandi divi come l’imminente House of Gucci. Dal 2000 in poi, la resilienza di Scott è quella di usare il suo metodo di verosimile artistico con i benefici dell’esperienza e garantire quell’aura di lussuosa fattura visiva che in 50 anni può egli stesso pubblicizzare come marchio di fabbrica. Scott conduce i suoi film come appunto conduceva i suoi spot 40 anni fa: uno vale l’altro (e Scott stesso ama dire «quanto mi chiedete qual è il mio piano, io vi rispondo che non c’è nessun piano!»), poiché a tutto, appunto con resilienza, giova lo spettacolare mix di estetica pittorica condita col massimo possibile di realismo. Oltre che nel visivo, in Scott si può applicare il concetto di immutabile stile anche ai livelli della trama e della “letteratura” della sceneggiatura. In Scott si può riconoscere con molta evidenza, pur nella detta cangianza di generi, un’attrattiva per i duelli, per le visioni del mondo contrapposte, per l’illustrazione epica delle grandi trasformazioni della Storia, per le battaglie guerresche, per l’apologo (spesso anche confuso proprio perché attento a dimostrare conflitto e inconciliabilità di vedute) sulla complessità del mondo presente, passato e futuro (e da 1492 i soggetti storici hanno di gran lunga avuto la meglio su quelli fantascientifici nelle scelte scottiane), una complessità finanche indecisa che si applica perfino alle istanze produttive delle pellicole (con quasi ogni film di Scott ad avere almeno una versione alternativa a quella uscita nelle sale): Scott è ugualmente compatto a livello tramesco quanto lo è a livello visivo. Forse, se Gladiator non avesse avuto il successo che ha avuto, Scott avrebbe davvero dovuto accontentarsi dei cantucci della televisione (dove trovò rifugio Friedkin dopo il ‘77), ma anche lì avrebbe imposto il suo mix visivo (come è evidente nei pilot da lui girati per The Hunger nel 1997, lavorato con suo fratello Tony e sfociato in una breve serie antologica, e per The Vatican nel 2013, invece incapace di attrarre compratori). La cosa è comprovata dai comunque non pochi flop che ha avuto negli ultimi 20 anni e da lui sempre “combattuti” non con cambiamenti repentini o con brusche virate, ma solo davvero con resilienza dello stile: per esempio in The Martian, del 2015, Scott ritrova il successo, dopo i poco performanti Robin Hood ed Exodus, solo aggiornando un po’ il vecchio artistico-verosimile con un’anticchia di concessione a una velocità di montaggio più videoclippara. Non si sa se il gioco gli riuscirà ancora per molto5, ma che gli sia riuscito per 50 anni ci fa capire davvero quanto la resilienza abbia pagato e, oltre che a Puccini (con il quale un paragone, data la prematura morte del compositore, ci è preclusa: sarebbe stato davvero divertente vedere come Puccini sarebbe riuscito, o non riuscito, a sopravvivere artisticamente alla Dodecafonia, al neoclassicismo o al nazifascismo, che tramortì parecchi suoi colleghi), ci fa pensare a uno Scott simile al Barone rampante di Calvino: curioso di tutto, attratto da tutto, ma capace di esistere solo alle proprie condizioni, capace di partecipare a qualsiasi cosa solo rimanendo se stesso, solo apportando le proprie regole: una sorta di testardaggine non adatta a tutti, ma bastevole a farlo adorare da tutti (proprio per la sua intelligente caparbietà, il Barone rampante è visto con sommo rispetto dagli altri personaggi che incontra). Si sa che Scott porterà le sue citazioni pittoriche, le sue ricostruzioni storiche certosine e la sua grandeur visiva in tutti i film a cui lavorerà, e per ora tutti lo stanno assumendo per questo. A livello di risultati estetici effettivi, la resilienza stilistica “sicura” di Scott forse ha pagato meno rispetto al tendere infinito di Spielberg, e i capolavori che rimarranno davvero nella Storia del Cinema forse saranno più quelli di Spielberg. Ma anche Scott, nel suo mix magico di artisticità verosimile riproposto ogni volta ha trovato quella giusta dimensione “metaforica” e riflessiva del cinema, che Spielberg ha invece trovato con la ricerca continua: il metacinema, evidente nello Streben di Spielberg, è anche implicito nella costanza di Scott, perché il mix di realismo e artisticità è di per sé, quasi tautologicamente, riflessivo della visione e del cinema stesso, poiché produce un’immagine che si sa essere finta (e Scott, con la sua stilizzazione pittorica, cerca di “fintizzare” in ogni modo quanto più può) ma che in quella fintezza rivela, scova e ritrova il vero che più vero non si può. E quando questa doppiezza, questa oscillazione tra vero e finto, necessaria all’umanità per conoscere e conoscersi, è stata trovata da Scott nella sua pienezza, allora sono nati davvero dei grossi capolavori. Oltre agli ovvi Blade Runner, riflessione magnifica sul rapporto tra visione, necessità del ricordo e realtà4, e Gladiatore, importante pamphlet sull’industria dello spettacolo, si può citare anche Black Hawk Down, in cui il mix tra vero e finto di Scott trova un risultato mirabile incastonato in una vicenda in cui a una ricostruzione dettagliata degli ambienti e delle contingenze militari, grazie a cui gli stessi soldati combattenti nella vera battaglia su cui si basa il film (cioè il fallito raid statunitense di Mogadiscio nel 1993) hanno rivissuto le loro emozioni, si affianca una configurazione fotografica completamente anti-naturalistica, fatta perfino di cieli verdi e oniriche notti blu: un esempio davvero plastico di quanto il vero della realtà si ottenga al massimo solo con la massima sapienza del finto cinematografico, in ottemperanza alle idee sia di Kubrick (amico di Scott e di Spielberg, colui che prestò a Scott il materiale per creare il finale pseudo-conciliante di Blade Runner e che al protagonista di Arancia meccanica fa dire: «È buffo come i colori del vero mondo diventano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo») sia, paradossalmente, di Giuseppe Verdi, che ripeteva a se stesso quanto «Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio»6. E la suggestione verdiana, applicata anche al pucciniano Scott, ci fa concludere quanto i grossi maestri hollywoodiani, al lavoro da 50 anni, sia lì ognuno con i suoi argomenti, e ognuno con la propria estetica e i suoi metodi, simbolo di diverse resilienze (lo Streben di Spielberg e la resilienza vera e propria “adattiva” di Scott), ma tutte capaci di farci riflettere ancora, in tempo di pandemia, di quanto non ci sia un solo modo per essere resilienti, e che ognuno può vivere al di là delle difficoltà grazie ai propri sistemi di adattamento. Nicola Bianchi
Note:
1 – Nel 1969, la Universal Pictures divenne parte della Music Corporation of America; dal 1966 la Paramount fu proprietà della Gulf+Western, una multinazionale che faceva vestiti oltre che vendere benzina; nel 1984 la 20th Century Fox veniva comprata da Rupert Murdoch; la Warner riesce a resistere fino al 1989, quando viene inglobata nel gruppo editoriale Time. 2 - Il primo suo disastro economico fu il bellissimo Sorcerer, che nel 1977 soccombette sotto i colpi della fantascienza di Close Encounters di Spielberg, e, soprattutto, di Star Wars di Lucas, allievo di Coppola; Sorcerer è stato, per fortuna, riscoperto dai cinefili negli ultimi anni. 3 - con salti di consolidamento altissimi avvenuti grazie alle sue collaborazioni con Allen Daviau tra 1982 e 1989, e poi con Janusz Kaminsky a partire dal 1993: le cesure nei film girati in questi periodi sono evidenti anche a una prima visione. 4 - Con il cacciatore che finisce per cercare se stesso, anche lui della medesima natura di quelli a cui dà la caccia: un significato ben presente nelle immagini finanche nella versione rielaborata per le sale dell’’82, dati gli occhi brillanti che Deckard ha in comune coi replicanti e la natura palesemente sognata del tanto vituperato finale imposto, a mio avviso pseudo-conciliante. 5 - The Last Duel, che viene lavorato dopo il flop di Alien: Covenant, si può tranquillamente considerare anch’esso un fallimento finanziario, e quindi gli occhi sono puntati sul prossimo House of Gucci anche per vedere quanto la resilienza stilistica possa reggere davvero dopo tutto questo tempo e dopo due fallimenti di fila. 6 - Magari capolavoro non è, ma anche lo scaccia-pensieri The Martian ha in sé la voglia di presentare la sopravvivenza come questione cinematografica, con le idee ingegneristiche astronautiche presentate come effetti speciali in un teatro di posa; e Il genio della truffa porta su di sé tutta la problematica della vita come rappresentazione e come doloroso distinguere tra verità e inganno, con immagini “fasulle” che mostrano quello che non è. Scrivono in PASSPARnous: Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Francesco Panizzo. |
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