BLACK MIRROR... a pezzi! -. Articolo di Fabiana Lupo

Revue Cinema Sezione diretta da Fabiana Lupo

BLACK MIRROR... a pezzi!

Articolo di Fabiana Lupo

Dopo una quarta stagione deludente[1] e un esperimento interattivo di grande impatto sociale ma di natura fondamentalmente “populista”[2], Charlie Brooker ci riprova con una quinta stagione di Black Mirror che non riesce ancora una volta a lasciare il segno. La serie, di cui abbiamo già parlato nei numeri precedenti, rimane comunque un punto di discussione aperto, un grande specchio su cui si riflette una realtà affettata, crepata. È per questo che decidiamo di parlarne ancora: anche se gioca su elementi già riproposti nelle stagioni precedenti, cerca comunque di raggiungere il suo fine ultimo, quello di scioccare, di rompere, di disgustare. L’atmosfera stavolta è diversa, i toni sono meno cupi, le situazioni a tratti al limite del grottesco. È forse per questo che non convince a fondo. Ma andiamo per ordine.

Tre episodi stavolta, come ai vecchi tempi. Se la brevità della stagione fosse direttamente proporzionale alla forza dirompente del racconto, questa sarebbe già una garanzia. Purtroppo non è così.

Striking Vipers, il primo episodio, è la storia di un’amicizia tra due uomini uniti in gioventù dalla passione per lo stesso videogioco.
Undici anni dopo, Karl regala a Danny per il suo compleanno un microchip, Viper X, che si applica sulla tempia e che agisce direttamente sullo status sensoriale del giocatore, stimolandone tutte le percezioni fisiche ed emozionali.
I due così si riappropriano dei loro alter ego: Danny nei panni dell’asiatico Lance, Karl in quelli della bionda sexy Roxette.

Quello che affascina è l’effetto provocato dall’immersione totale nel videogame: i due, seduti sui loro rispettivi divani, una volta indossato il dispositivo, cadono in una sorta di catalessi che produce una perdita totale dei sensi e un annebbiamento della retina. Lo scostamento tra il PP del catatonico Danny e la successiva soggettiva di lui all’interno del corpo di Lance è uno dei pochi momenti alti dell’intera stagione: da una parte l’assenza in un corpo reale, dall’altra l’immedesimazione totale in un corpo assente; un contrasto che viene accentuato registicamente e fotograficamente oltrepassando il confine della materia.

La svolta arriva nel momento topico del gioco, l’inizio del combattimento: i due, nei nuovi abiti, dopo qualche cazzotto iniziale, scoprono di provare una forte attrazione l’uno nei confronti dell’alias dell’altro. Lo scontro alla Mortal Kombat si trasforma così in un incontro sessuale di cui i due non possono più fare a meno, a discapito delle loro vite reali.

Se le premesse lasciano immaginare un’evoluzione dei personaggi al di là di ogni orizzonte possibile, la risoluzione finale è piuttosto banale e semplicistica: la presunta “transessualità virtuale” di Karl, così come la repressione sessuale di Danny, si risolve in un finale che diventa un grande compromesso storico, al limite del politically correct. Una risoluzione banale non all’altezza di quanto prospettato. Smithereens, è sicuramente l’episodio di cui potremmo fare a meno di parlare e che rappresenta meglio quella parabola discendente verso cui sembra virare definitivamente la serie. Per niente distopico, totalmente privo di elementi da sci-fi, il secondo episodio sembra quasi preso da un articolo di un quotidiano o da un talk show televisivo.

Ossessionato dai sensi di colpa per aver guardato in macchina una notifica sul cellulare e aver provocato così la morte della fidanzata, Chris decide di sequestrare uno stagista della Smithereen, l’azienda realizzatrice del social che lo aveva portato alla dipendenza.

Lo scopo è quello di parlare con Billy Bauer, fondatore della piattaforma, e tirar fuori tutti i suoi scheletri dall’armadio. Quello che non fa di Smithereens un episodio degno di Black Mirror è che si muove su un piano al limite tra il finto buonismo e le cliché. Per esempio, intorno alla figura del guru Billy Bauer si cela un alone di inaccessibilità e di riservatezza che nessuno dei suoi subalterni vuole infrangere. Si scopre più avanti che Billy periodicamente ha bisogno di fare un ritiro spirituale per staccare la spina da ogni contatto sociale. Insomma, un grande classico! È più o meno quello che pensiamo che faccia Mark Zuckerberg per vivere in pace con la sua coscienza. Il finale è invece uno scontato “botta e risposta” telefonico in cui emerge il finto pietismo di Billy e che si risolve con un inaspettato gesto altruistico da parte di Chris.

Insomma, morale della favola: i social sono brutti e cattivi e la vita reale è là fuori. Brooker, non sappiamo fare di meglio? Rachel, Jack and Ashley too è l’ultimo episodio di questa trilogia e, per alcuni aspetti, anche il più interessante.

L’idea geniale è quella di far recitare Miley Cyrus, diventata famosa per il suo ruolo di Hannah Montana, nei panni di Ashley O, la diva rosa pop che incoraggia le sue giovani fans a credere in se stesse. Il gioco tra la finzione narrativa e la vita reale della cantante, che con fatica si è riuscita a distaccare dall’immaginario disneyano di brava ragazza, è la cosa più riuscita della stagione. Il modo in cui poi lei si mette in ballo come attrice è a dir poco straordinario.

Ciò che si nasconde dietro la vera Ashley O è un mondo fatto di privazioni e di regole rigide, imposte da una zia che è allo stesso tempo la sua manager e l’ultimo frammento della sua famiglia.

La sua immagine spopola così tanto tra le teenager a tal punto da trasformarla in un oggetto feticcio: Ashley too, un piccolo robot che apparentemente simula le risposte della vera Ashley, ma che in realtà contiene in sé la vera personalità della cantante.
Lo showbusiness costruito intorno alla sua figura è così soffocante che, anche nel momento in cui la ragazza entra in coma, i discografici riescono a tirar fuori dai suoi diagrammi celebrali un nuovo disco. La riproduzione dell’ologramma gigante di Ashley O durante la presentazione del suo album-testamento è un bel pugno nello stomaco dello spettatore e, senza dubbio, un bello schiaffo morale a quell’industria discografica che trae profitto dalle fragilità di un’adolescente.

Insomma, non abbiamo potuto fare a meno di parlarne di nuovo. E sicuramente, nonostante le ultime pessime fatiche di Charlie Brooker, già ci solletica la fantasia l’idea di vedere una nuova stagione di Black Mirror. Forse perché ancora c’è tanto da dire di noi, del nostro rapporto con la tecnologia, dei suoi possibili sviluppi sulla natura umana. È per questo che Black Mirror rimane uno specchio, che ad’oggi ha qualche vetro infranto, ma che speriamo che il suo creatore rimetta presto a posto.

Fabiana Lupo

Note:
[1] Il confronto con la seconda stagione di Handmaid’s tale: http://www.psychodreamtheater.org/rivista-passparnous-ndeg-66---cinema--8203-percheacute-the-handmaidrsquos-tale-egrave-diventato-piugrave-inquietante-dellrsquoultima-stagione-di-black-mirror---un-articolo-di-fabiana-lupo.html
[2] L’articolo dedicato a Bandersnatch: http://www.psychodreamtheater.org/rivista-passparnous-ndeg-70---cinema--8203-netflix-interattivitagrave-o-ldquopopulismo-multimedialerdquo-bandersnatch---un-articolo-di-fabiana-lupo.html

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