Il deserto nell’anima androide.
Blade
Runner 2049 di Denis Villeneuve Articolo di Fabiana Lupo
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Trentacinque anni dopo l’uscita di Blade Runner (1982) qualcuno ha sentito la mancanza di un film visionario ed esistenzialista come quello di Ridley Scott e ne ha fatto un sequel. Denis Villeneuve è indubbiamente uno dei pochissimi registi a cui si poteva pensare per affidare la realizzazione di un’impresa tanto grande quanto pericolosa.
Nel suo ultimo Arrival ha già dimostrato, in maniera non del tutto convincente narrativamente ma visivamente elegante, la sua capacità di saper raccontare l’incomunicabilità, su un doppio livello strutturale: un primo, più esplicito, nei confronti di una razza aliena che si esprime con geroglifici fumosi; un secondo, quello forse più interessante, più intimo, il contatto con l’alieno che c’è in noi, quella parte più umana che la protagonista Louise (Amy Adams) ha deciso di seppellire nel deserto del suo cuore dopo la morte della figlia. Per iniziare a parlare di Blade Runner 2049 bisogna in effetti ripartire da qui, dal deserto. Hampton Fancher, già sceneggiatore del film di Scott, assieme a Michael Green, scrive una sequenza iniziale che è degna di una delle più belle pagine di Frank Herbert: l’agente K (Ryan Gosling), un obbediente “blade runner” modello Nexus 9, approda con la sua auto volante in una distesa arida, in mezzo alla quale, come un Fremen tra le dune di Arrakis, si nasconde Sapper Morton, un vecchio modello Nexus 8. L’inquadratura della piccola serra, dotata di una ventina di buste d’acqua giallastra, in cui il vecchio androide con addosso una tuta isolante alleva insetti è la prima di una serie di immagini che richiama alla mente del habitué del genere i grandi classici della letteratura fantascientifica ecologica. Il confronto con Morton, che si trasforma quasi subito in uno scontro corpo a corpo, infonde in K il seme del dubbio, del segreto che l’uomo nasconde con sé. “E voi, nuovi modelli, siete felici di raschiare la merda perché non avete mai visto un miracolo…” E in effetti subito dopo, uscito fuori dalla baracca, K si ritrova di fronte a un vero e proprio miracolo: sulla distesa arida, ai piedi di un albero secco, quasi del tutto fossilizzato, due fiori gialli. Come un tronco vuoto, il protagonista inizia così il suo viaggio interiore alla scoperta di quel bagliore di umanità di cui è stato privato sin dal suo concepimento. I due fiori strappati al terreno sono forse l’emblema di due genitori che non ha mai avuto o conosciuto? La metafora del film, la questione che Villeneuve cerca di porre allo spettatore per le circa tre ore di visione, è racchiusa nei primi dieci minuti: è possibile trovare, proprio com’è successo scavando sotto quel terreno apparentemente privo di vita, il seme di un’umanità nascosta in un cuore robotico? La grande sfida che attende l’agente è proprio davanti a sé: come di fronte a uno specchio, K si ritrova a ragionare sulla propria esistenza davanti a un albero, simbolo eterno della vita. Questo deserto disumanizzato, metafora dell’anima dell’androide, viene rafforzato dalla scena successiva, quella che mostra K che, durante un test di riferimento effettuato da una macchina che ricorda il computer di bordo Hal 9000, ripete in maniera meccanica e distaccata una sequenza di parole. Le premesse filosofiche sono tante e l’intento di solleticare i grandi nostalgici tarkovskijani è bello che evidente. Ma cosa succede nel corso del film? Succede che questi interessanti presupposti vengono annacquati con quello che è un intreccio quasi del tutto basato sulla convinzione di K di essere quel miracolo, il bambino nato dall’amore tra un umano, Rick Deckard, e un androide, Rachael. Questa esasperante ricerca di una misteriosa genitorialità, che si rivela nel finale un misero fallimento, trasforma il personaggio di K in una marionetta che si muove in una messinscena credibile fino alla rivelazione finale, davanti alla quale la sua espressione facciale non fa nessuna piega. E’ vero, non tutti i film improntati su un’indagine così intima devono necessariamente finire con la frase “Io sono tuo padre!”. Ed è un bene che anche questo film non abbia avuto una risoluzione così banale. Ma a circa due ore e mezzo dall’inizio del film lo spettatore ha talmente tanto empatizzato con l’agente androide K che non ha più importanza se sia davvero lui il miracolo di cui tanto si parla; quello che conta ora è soltanto il suo lato umano. E, bisogna ammetterlo, l’espressione monolitica di Ryan Gosling, soprattutto in un finale che potrebbe essere un momento di alto pathos, non aiuta. Tutti ricorderanno quel viso bagnato dalla pioggia di Roy, quelle parole pronunciate sul tetto che sono la summa della disperazione di un corpo rigido che vorrebbe vivere. “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...” La potenza di quell’inquadratura, il senso profondo di quelle parole spaccano lo schermo e arrivano dritto al cuore, travalicando il discusso limite tra ciò che è umano e ciò che non lo è: da una parte Roy, un androide alla disperata ricerca della vita, dall’altra Rick, un uomo che ama una donna “senza vita”. La differenza tra Roy e K è evidente: le lacrime bagnate dalla pioggia del primo trasmettono quel senso di umano mai conosciuto, eppure in qualche modo vissuto, che anche K ha sperimentato ma che, purtroppo, non riesce a consegnare ai posteri. La sua espressione finale, una morte frizzata sotto una sottile coltre di neve, non fa che confermare la sua natura artificiale e annullare tutto il suo sforzo di umanità che ha preceduto la triste scoperta.
Col senno di poi, anche una scena incredibile come quella in cui K fa l’amore con la sua ragazza-ologramma Joi attraverso il corpo di una prostituta sembra perdere la sua potenza: fortemente scandita dalla necessità di entrambi di sentire una fisicità che travalica la loro natura, quell’istante sembra essere solo un altro momento di “frigidità emotiva” di un personaggio con cui è difficile immedesimarsi. Il ricordo iperreale di un cavallino di legno, richiamo esplicito al “rosebud” wellessiano, non basta per rendere credibile il personaggio di Gosling che, seppur bello e bravo, non convince nei panni di un androide in lotta con la sua natura contraddittoria. Inutile parlare qui delle fattezza del film che, agli occhi di tutti, si distingue per la sublime fotografia di Roger Deakins, di un’eleganza rarefatta ed essenziale, e per le magnifiche musiche di Hans Zimmer e di Benjamin Wallfisch, fatte di forti suoni sintetizzati che ne sottolineano la realtà distopica del film e il senso di disperata solitudine del protagonista.
Insomma, Blade Runner 2049 sarebbe davvero potuto essere un capolavoro, un nuovo imprescindibile tassello nella storia del genere. Peccato che quel senso sospeso, mai dichiarato, di profonda desolazione che si respira per tutto il film di Scott si sia un po’ perso per strada nel nuovo film di Villeneuve. Fabiana Lupo
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Scrivono in PASSPARnous: k
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Plamieri, Francesco Ferrazzi, Giovanni Ferrazzi, Francesco Panizzo.
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