Il montaggio e la sua
trasposizione nel profilmico SPLIT di M. Night Shyamalan Articolo di Fabiana Lupo
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Qualcuno se n’è accorto, qualcuno no. Sopraffatto dai Blablaland al retrogusto di Chinese Theatre e ignorato dalla tanto bramata statuina, Split ha varcato la soglia delle sale cinematografiche italiane senza lodi né infamia. Eppure l’ultimo film di M. Night Shyamalan merita almeno un paio di appunti interessanti, soprattutto per il modo in cui il regista riesce a tradurre visivamente e formalmente la materia da lui trattata.
Precedentemente abbiamo già parlato della capacità di alcuni registi di trasformare linguisticamente la sostanza stessa del film, il loro contenuto più intimo, più segreto: è successo con Enter the void di Gaspar Noè e succede in quasi tutti i film di Malick. Ma stiamo parlando di film accomunati da un marchio stilistico molto forte, impresso dalla mano stessa del regista che dà alle pellicole un forte aspetto autoriale. C’è sempre questa specie di fantasma che aleggia nell’aria quando si parla di thriller, come se ancora oggi, dopo l’esperienza di Hitchcock e di Argento, si possa ancora considerare questo genere appartenente alla categoria dei b-movies. E diciamo che Shyamalan ultimamente, a causa di una serie di flop incassati uno dopo l’altro, c’ha messo del suo per scendere dal podio dei maestri del terrore. Ma con quest’ultimo film, un low budget americano costato circa 9 milioni di dollari, il regista è come se ci volesse ricordare proprio questo, che la tecnica non l’ha dimenticata. E ce lo dice con un titolo, che non dice niente a un non addetto ai lavori ma che invece, per esempio, dice tanto a un montatore. “Splittare” una clip su un’altra in montaggio significa anticipare o posticipare il taglio del video rispetto al suo corrispettivo audio: lo scopo è quello di dare una certa fluidità alla scena, a un dialogo per esempio, evitando l’effetto “botta e risposta” di una partita di ping pong. Non ce ne accorgiamo, ma alla base di tutti i film che vediamo c’è questo piccolo disallineamento tra uno stacco e il suo successivo, quasi come se la natura stessa del montaggio fosse di per sé “nevrotica”.
Inoltre, poiché “to split” si traduce dall’inglese proprio con “frammentare, dividere”, verrà facile dedurre dunque cosa sia uno “split screen”: la possibilità in post-produzione di frazionare lo schermo in due o più inquadrature al fine di mostrare contemporaneamente più personaggi o situazioni.
La locandina di Split parla chiaro: è il soggetto ad essere “splittato”, frammezzato, riflesso com’è in uno specchio (l’inquadratura cinematografica) crepato. Ecco dunque che lo split in questo senso emerge chiaramente su tre livelli separati: quello del contenuto, quello attoriale e quello formale.
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Nel corpo di Kevin Wendell Crumb convivono 23 personalità multiple, ognuna delle quali è seduta su una sedia e aspetta il suo “momento di luce”. Il ragazzo è assistito da Karen Fletcher, una psichiatra che si occupa di casi come quello di Kevin e che si batte affinché il disturbo dissociativo d’identità (DID) venga considerato non più una malattia ma una capacità di alcuni individui di aver sviluppato attraverso la sofferenza una sorta di superpotere. Denis, una delle 23 personalità di Kevin, decide di uscire alla luce e di rapire e confinare in uno scantinato tre ragazze, quest’ultime destinate ad essere “cibo sacro” per la “bestia”. La trama, esclusa la questione delicata del DID e la reputazione a livello medico dei soggetti affetti da questa malattia, non è poi così originale. Vi sono in ogni caso tutte le carte in regola per creare un buon thriller carico di suspense e di terrore.
A dare man forte al plot c’è l’attore protagonista, o forse sarebbe meglio dire, gli attori protagonisti, tutti interpretati da uno strepitoso James McAvoy che riesce a destreggiarsi tra le varie personalità con una maestria istrionica più unica che rara. Il maniacale Dennis, che potrebbe piangere alla vista di una briciola su una maglietta; lo stilista Barry, che detiene il controllo sul corpo di Kevin; la signora Patricia, una delicata donnina in gonna plissettata nera e maglia rossa a collo alto; il piccolo e ingenuo Edwig, di nove anni, amante di Kanye West, dominato dalle altre personalità e in cerca di un riscatto. Diversi l’uno dall’altro ma accomunati dal dividersi e dal contendersi tra di loro lo stesso corpo, le diverse personalità hanno tutte una vita autonoma e parallela, quasi come se, per dirla con le parole di un montatore, Kevin fosse una sequenza di montaggio e le singole identità le sue clip, ognuna delle quali “dominante” o “sottomessa” rispetto alla sua vicina.
“Splittato” dunque nel vero senso della parola tra un’identità e l’altra, la prova recitativa di McAvoy diventa la trasposizione attoriale del linguaggio cinematografico, un continuo scivolare da un’inquadratura all’altra, da una situazione all’altra, mostrando il trucco ma non l’inganno, la forma ma non la tecnica.
A dare man forte al plot c’è l’attore protagonista, o forse sarebbe meglio dire, gli attori protagonisti, tutti interpretati da uno strepitoso James McAvoy che riesce a destreggiarsi tra le varie personalità con una maestria istrionica più unica che rara. Il maniacale Dennis, che potrebbe piangere alla vista di una briciola su una maglietta; lo stilista Barry, che detiene il controllo sul corpo di Kevin; la signora Patricia, una delicata donnina in gonna plissettata nera e maglia rossa a collo alto; il piccolo e ingenuo Edwig, di nove anni, amante di Kanye West, dominato dalle altre personalità e in cerca di un riscatto. Diversi l’uno dall’altro ma accomunati dal dividersi e dal contendersi tra di loro lo stesso corpo, le diverse personalità hanno tutte una vita autonoma e parallela, quasi come se, per dirla con le parole di un montatore, Kevin fosse una sequenza di montaggio e le singole identità le sue clip, ognuna delle quali “dominante” o “sottomessa” rispetto alla sua vicina.
“Splittato” dunque nel vero senso della parola tra un’identità e l’altra, la prova recitativa di McAvoy diventa la trasposizione attoriale del linguaggio cinematografico, un continuo scivolare da un’inquadratura all’altra, da una situazione all’altra, mostrando il trucco ma non l’inganno, la forma ma non la tecnica.
Davanti a una segmentazione della materia così netta, Shyamalan decide bene di non abusare in post-produzione di nulla che possa sottolineare ulteriormente la condizione psicologica di Kevin. Il regista preferisce infatti giocare con la geometria degli spazi per ricavare, se così si può dire, degli “split screen naturali”, inscritti direttamente nel profilmico e ripresi con una precisione simmetrica quasi millimetrica.
Un esempio è la prima inquadratura totale dello scantinato in cui sono rinchiuse le tre ragazze: una sorta di sostegno separa Casey, la protagonista nonché l’outsider del gruppo, a sinistra dello schermo, da Claire e Marcia, a destra dell’inquadratura. La diversità tra Casey e le sue compagne di scuola diventa dunque visivamente evidente a pochi minuti dall’inizio del film e sarà solo più tardi narrativamente chiara attraverso alcuni flashback della ragazza che la riportano indietro nel tempo: abusata sessualmente da piccola dallo zio e affidata a lui dopo la morte del padre, Casey è l’esatto complementare di Kevin, una sorta di ragazza interrotta che ha trovato nella sofferenza la sua unica via di fuga.
Altri esempi molto sottili di split screen sono inscritti nel testo filmico in maniera più implicita, come ad esempio le soggettive delle ragazze che spiano Patricia attraverso la fessura della porta, o il PP della bestia che piega le spesse sbarre che lo separano da Casey. Insomma, l’uso degli elementi di scena come quinte teatrali o come spazi di demarcazione spaziale danno all’intero film un senso di strana “ordinata” follia, un po’ come avviene all’interno di una sequenza di montaggio: tutto sembra apparentemente in fila, ordinato ma, a ben vedere, la fluidità di un’opera filmica sta proprio nel suo disallineamento strutturale.
E Shyamalan, in maniera molto acuta, sembra volerci dire proprio questo: dietro una disposizione apparentemente geometrica dell’universo si nasconde la forza oscura, il caos, pronto a esplodere da un momento all’altro. È per questo che vale la pena vedere questa sua ultima creazione, Split, a mio avviso una grande dichiarazione d’amore di un mestierante che sa fare e, soprattutto, che conosce il suo lavoro.
Altri esempi molto sottili di split screen sono inscritti nel testo filmico in maniera più implicita, come ad esempio le soggettive delle ragazze che spiano Patricia attraverso la fessura della porta, o il PP della bestia che piega le spesse sbarre che lo separano da Casey. Insomma, l’uso degli elementi di scena come quinte teatrali o come spazi di demarcazione spaziale danno all’intero film un senso di strana “ordinata” follia, un po’ come avviene all’interno di una sequenza di montaggio: tutto sembra apparentemente in fila, ordinato ma, a ben vedere, la fluidità di un’opera filmica sta proprio nel suo disallineamento strutturale.
E Shyamalan, in maniera molto acuta, sembra volerci dire proprio questo: dietro una disposizione apparentemente geometrica dell’universo si nasconde la forza oscura, il caos, pronto a esplodere da un momento all’altro. È per questo che vale la pena vedere questa sua ultima creazione, Split, a mio avviso una grande dichiarazione d’amore di un mestierante che sa fare e, soprattutto, che conosce il suo lavoro.
Fabiana Lupo
Scrivono in PASSPARnous: k
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Francesco Panizzo.
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