Questo mese abbiamo visitato un piccolo ma intenso festival a Lubiana in Slovenia: Sound Disobedience. Come annuncia il nome il festival è focalizzato sulla musica contemporanea, in specifico la musica improvvisata sia elettronica che acustica, una sperimentazione musicale che esce dagli schemi usuali, disobbedisce alle regole, o per lo meno, cerca di farlo. Perché parlare di un festival di musica contemporanea nelle pagine dedicate al teatro? I motivi sono molteplici: innanzitutto oggi i confini tra le arti sono molto labili. Gli sconfinamenti sono diventati usuali, i contatti tra linguaggi diversi sono una prassi consolidata e fruttuosa. In arte non c’è paura del diverso, lo si incontra, lo si frequenta, ci si accresce nel contatto. E proprio per questo transitare allegramente tra i confini, le pratiche di un’arte portano con sé suggerimenti brillanti valevoli anche per le altre. John Cage amava dire che la musica contemporanea è qualcosa che bisogna sia vedere che sentire, ma ciò che si vede e si ascolta è, sempre per sua definizione, teatro nella sua forma più semplice. Un semplice esempio: se si ascoltasse la musica prodotta dalla musicista serba Jasna Veličkovič saremmo sì di fronte a qualcosa di interessante e inusuale, ma perderemmo qualcosa. Jasna si è costruita un suo strumento, il velicon, un complesso sistema di calamite che vengono suonate sfruttando i campi magnetici prodotti. Il suo gesto, l’attenzione con cui titilla, sfiora, accarezza le calamite con gli induttori che trasformano un fenomeno invisibile e inudibile in un evento acustico, sono parte essenziale del concerto. Ma questo esempio solamente resterebbe più nel novero delle curiosità e molti potrebbero dire che questo potrebbe valere anche in un classico concerto per violino solo. Sono d’accordo. É per questo che il concerto ha sempre qualcosa in più rispetto all’ascolto casalingo. Vediamo quindi di analizzare più in dettaglio ciò che potrebbe essere interessante per l’arte performativa. Durante Sound Disobedience c’è stato il workshop di un musicista straordinario, Seijiro Murayama. Un workshop dedicato all’ascolto e all’improvvisazione. Camminate nello spazio, piccoli suoni, movimenti legati ai suoni e all’esplorazione dello spazio. Solo alla fine i musicisti suonavano i loro strumenti. L’improvvisazione dopo l’ascolto, dopo il movimento. Non è un caso che il workshop sia stato frequentato anche da chi musicista non era. Un insegnamento magistrale dove l’agire sullo spazio, agire non importa se sonoro o meno, prima di essere non può prescindere da un mettersi in ascolto, nel cogliere ciò che accade intorno, nel mettersi a disposizione di ciò che è intorno al nostro agire affinché tale agire si intoni, dialoghi, rispetti. Murayama non pratica niente di diverso da ciò che attua sulla scena François Tanguy e il Theatre du Radeau. Un recitare in ascolto, cogliendo l’agire delle cose e delle persone su quello spazio possibile che è la scena, e la parola solo allora può scaturire, in questo silenzio colmo d’attenzione. Nel proprio concerto, Murayama ha magistralmente messo in pratica i suoi principi. Con due semplici pezzi di legno e una tenue luce il maestro giapponese ha incominciato la sua esplorazione dello spazio, cercando le risonanze, le tonalità, i riverberi che lo spazio stesso poteva donare. Il suo movimento, il suo agire era site specific come il suono da esso prodotto. Era lo spazio a suonare non lo strumento non il musicista. E poi piccoli suoni prodotti dalla voce e amplificati da un semplice microfono. Vicinanze, lontananze, transiti capaci di generare ascolto a partire dall’ascolto di sé come strumento. Infine un piatto suonato con un archetto e un tamburo. Un piatto che veniva fatto cantare, con gesti delicati e rispettosi, che imponevano l’ascolto, che facevano vibrare il silenzio piano piano occupato da suoni lievi di grazia. Un paesaggio sonoro che includeva anche lo scricchiolio delle sedie, il frusciare delle vesti degli spettatori, l’immancabile tosse da concerto.
E questo perché ciò che avveniva non si imponeva all’ascolto ma era generato dall’ascolto e imponeva l’ascolto di quanto accadeva nello spazio. Un evento performativo a tutto tondo, che va al di là dell’arte sua, supera i confini perché li allarga in maniera tale da farli scomparire al di là dell’orizzonte.
E quanto questo suo agir suonando sarebbe di insegnamento a tanti performer che violentano la scena perché si chiudono all’ascolto. Quanti performers si mettono in scena anziché togliersi di scena per far apparire l’immagine. Quello di Murayama è un togliersi di mezzo per farsi attraversare, per lasciar esistere. Una condizione sempre meno presente sulle scene, dove tutti fanno a gara per apparire invece di lasciarsi sparire, di cancellarsi, a favore dell’opera. Il lavoro di sottrazione di Murayama è un tendere allo zero che non è un punto vuoto che conduce a un nulla, ma il luogo in cui tutto può accadere e succedere e dove tutto diventa necessario. La grazia che scaturisce dal sottrarsi, dal lasciare spazio affinché lo spazio possa venir occupato dagli accadimenti. E così nel semibuio della scena Murayama fa scaturire una luce fulgida nata dalla rimozioni di tutti gli ostacoli che impediscono la nascita della luce. Questo è ciò che ogni artista dovrebbe aver presente prima di calcare le scene: rimuovere il sé per far apparire il mondo.
Enrico Pastore
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