Chiariamo subito una cosa: l’opera del galiziano Pablo Fidalgo non fa certo parte delle nuove tendenze. È un’opera di stampo classico, di quelle che solitamente su queste pagine castigo senza riserve. Eppure questa volta faccio un’eccezione. La faccio volentieri.Pablo Fidalgo ricostruisce la storia di un lontano parente, Giordano Lareo, e attraverso quest’uomo si tratteggia la storia di Spagna, ma anche la storia di ogni migrante costretto dalla guerra a dover cambiare orizzonte. Giordano Lareo è una figura emblematica, un moderno Ulisse che non tornerà mai in patria. Catturato dai franchisti sfugge per miracolo all’esecuzione, esule in Argentina, traduttore, professore, tesoriere della Repubblica in esilio, patito di origami tanto che pubblicare il primo manuale argentino sull’argomento. La vicenda di Giordano Lareo ricorda per molti versi quella del nostro partigiano Johnny: non si può rimanere indifferenti, bisogna compiere una scelta, bisogna essere di quelli che costruiscono secondo una visione e non essere quelli che subiscono un mondo imposto. Giordano Lareo ce lo dice: io sono quello che sta al di là del vetro. Io ho patito, ma ho conservato la mia libertà. Io posso guardare il dittatore dritto negli occhi perché ho detto no. E voi chi siete? Di quelli che scelgono o di quelli che si voltano dall’altra parte? Bisogna avere un’idea del mondo per tenersi al di qua del cristallo.
Questa visione è ciò che mi fa compiere un’eccezione per quest’opera magistralmente scritta e superbamente interpretata da Claudio Da Silva, attore a sua volta esule dall’Angola, straniero in Africa e straniero nel suo Portogallo. Ma vi è anche un altro motivo che mi fa apprezzare l’opera di Fidalgo. La vicenda narrata di Giordano Lareo non è chiusa in se stessa. È un paradigma, che permette di veder nella sua singolarità la vicenda di ognuno. L’aria circola tra scena, platea e interprete, tra passato e futuro, tra storia di Spagna e ogni guerra civile. Come il Partigiano Johnny è mito ed è paradigma di una scelta. Un mondo diverso si costruisce a partire da una visione del mondo, dal coraggio di brandire un’immagine e un pensiero costi quello che costi, come Giordano Bruno più volte evocato. Giordano Lareo più volte si chiede: cosa avrà pensato Giordano Bruno entrando quella mattina in Campo dei Fiori mentre lo conducevano al rogo e la folla lo insultava e lo scherniva? Molte cose probabilmente, ma soprattutto che ci sono molti modi di illuminare una piazza. Si può inondarla di luce nonostante il rogo di bruci le carni è la sua risposta. Il proprio dolore, causato dal vivere fino in fondo una scelta, è ciò che illumina il cammino di altri, è ciò che fa si che altri varchino il confine che li costringe dietro al vetro, a non essere come Tonio Kroger tra coloro che guardano dalla finestra la festa della vita, ma essere tra coloro che la vita la possono guardare in faccia, tra coloro che non subiscono, ma tra coloro che agiscono e pagano il fio delle loro visioni. L’azione sul palco è unica: piccole colombe di carta in un mucchio che piano piano vengono disposte in lunghe file a occupare l’intero palco. Tra queste file infine la danza di Giordano Lareo/Claudio da Silva (ormai le loro storie sono indistinguibili), una danza negli intervalli, tra gli spazi vuoti, una danza di vita tra figure immaginarie. Questi sono i motivi per cui un’opera che appartiene ad un teatro che non è più, e che spesso ho combattuto su queste pagine perché rispecchia un metodo e a un sistema produttivo che non risponde più al contemporaneo, in questo caso mi fa levare il cappello e rendere merito. La sua apertura, la sua capacità di essere universale e aperta, il suo invito a lottare per le proprie visioni del mondo. Ad avere una visione del mondo e in fondo il teatro è proprio questo: il luogo da cui si guarda il mondo e in questo mirar vi è implicito l’invito a mutarlo con coscienza, a non essere burattini ma uomini. Enrico Pastore
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