Electro Camp è una piccola realtà difficile da ignorare. Un progetto virtuoso che mira alla ricerca. Quella vera. Si lavora sui linguaggi, sulle coesistenze, sulle dinamiche di collaborazione tra arti diverse. Musica, danza, performance. Quelle che oggi si chiamano Live Arts. Electro Camp non è una vetrina. Non si mostra, non si espone come al mercato i prodotti nuovi al pubblico consumatore. A Electro Camp si avviano processi, si condividono esperienze di lavoro con un pubblico che è chiamato a partecipare, a osservare, a dire la sua. Nei quattro giorni di festival ho potuto assistere a un circolo virtuoso di persone che con passione anodina hanno cercato di costruire una piattaforma di incontro tra linguaggi, artisti, pubblico e critica che portasse alla discussione attiva, allo scambio fecondo. È raro incontrare situazioni così eccellenti. Si tende sempre più a chiudere gli spazi del dialogo nelle ferree maglie dell’organizzazione di eventi. Di incasellare tutti nei propri ruoli precostituiti dove ognuno è costretto a recitare la sua parte. Divisi e incomunicanti. Ognun per sé. Isole.
Senza forzature, senza obblighi, ma con naturalezza spontanea, a Electro Camp si vive l’esperienza della creazione, il processo di ricerca dei linguaggi artistici e della reciproca interazione avviene in una condivisione di tempi e luoghi che ristabilisce la circolazione sanguigna tra pubblico e artisti. C’è ariosità, leggerezza, conviviale amicizia. Si respira aria fresca non quella asfittica, viziata delle stanze chiuse. Non sto parlando ovviamente di valore estetico, artistico o formale, ma dell’abilità rara messa in campo dagli organizzatori di creare un vero luogo di transito, di scambio di idee, di pareri, di pratiche. Nelle due polveriere e nel capannone C32 all’interno del Forte Marghera, ai margini estremi della laguna, dove le acque inquinate da anni di abusi, lambiscono una terra altrettanto piagata, si è stabilito un ecosistema di virtù dimenticate: la convivenza e lo scambio, il dialogo e l’ascolto, il processo di ricerca contro il valore del risultato acquisito che non porta a nulla e da nessuna parte. Si sbaglia? Si fallisce? Certamente! E ben vengano i fallimenti quando ci si mette su strade poco battute. Si capita si sbagliare strada, di inciampare, ma si procede nella mappatura di aree poco conosciute. Questo è il valore. Sempre più dimenticato e negletto. Si predilige la vetrina. Ci si fregia di prime, di presenze illustri, invece che creare ambiti in cui l’esperienza artistica sia esposta nel suo farsi, nei suoi tentennamenti, nel suo essere processo non garantito da successo assicurato. Non si creano prodotti che piacciano a tutte le bocche. Non siamo al supermercato. Siamo in un altro luogo. Il laboratorio creativo dell’artigiano che cerca la forma, l’ambito il processo giusto per elaborare la sua materia ricercandone le funzioni nell’incontro con un pubblico non passivo, non presente per applaudire, ma per partecipare esperendo il percorso accidentato che si palesa sotto i suoi occhi. A Electro Camp, a parte qualche eccezione, non si sono presentati lavori finiti. Ma si sono creati dei contenitori nei quali esperire diversi processi. Da una parte l’esperienza denominata Partitura per Corpo dove, dopo essere stata elaborata una piccola partitura corporea, la si è sottoposta a tre musicisti che esplorano l’ambito elettronico affinché elaborassero un lavoro che entrasse in dialogo con il corpo in movimento. Non una colonna sonora, né un tappeto acustico, ma un’opera che elaborasse stilemi propri che entrassero in risonanza con la partitura corporea. I musicisti erano autonomi nella lavorazione e nella composizione del pezzo. L’incontro avveniva solo live, di fronte a un pubblico conscio di trovarsi di fronte a un momento sperimentale.
Essere entrambi nello stesso spazio/tempo con la propria autonomia, il proprio linguaggio, la propria personalità non è semplice né scontato. È un processo delicato che non sempre scaturisce. La convivenza che tutti si affannano a sbandierare in questi tempi difficili, si è affrontata in un lavoro che conduce a inevitabili contrasti, misunderstanding, errori di prospettiva. La convivenza non è data a priori da leggi e teoremi ma frutto di un lavorio faticoso senza garanzie di successo. Ma si è cercato, si è provato si sono percorse strade che magari in futuro saranno più proficue. La convivenza tra Chironomia e la Gabrielli è stata la più proficua e fruttuosa perché incentrata non sul creare una somma tra le parti, ma nella ricerca di connessioni di linguaggio costruttivo nel rispetto dell’indipendenza che ha prodotto una moltiplicazione, una amplificazione nella compresenza con la controparte.
L’altro percorso sperimentale è stato denominato Racconto Solido. Si è chiesto agli artisti Alberto Favretto e Elisa Bortolussi di creare nella Polveriera Francese del Forte uno spazio che ospitasse l’azione di performer e musicisti chiamati a interpretare, vivere, abitare questo spazio. Musica e azione performativa si incontravano come in un appuntamento al buio in questo luogo circoscritto e difficile: un cubo di argilla posto al centro di uno spazio illuminato da neon caldi e freddi. Un luogo asettico, geometrico, impegnativo nella sua linearità che non lasciava appigli al figurativo e all’emozionale. Una sfida. Tre serate, tre incontri, tre differenti risposte. Il primo tra il duo performativo Fagarazzi&Zuffellato con Kalalunatic. Un incontro di energie dirompenti. Dove lo spazio era condiviso con un pubblico immerso nell’azione. Processi di costruzione e distruzione, di conquista e di perdita, di confini accettati o rifiutati e in perenne mutazione. Un luogo di lotta dove tutti possono essere feriti, perdere qualcosa o qualcuno. Il monolito di creta, nella sua glaciale perfezione geometrica in perenne contrasto con la dinamica esplosiva della vita caotica e senza progetto.
Il secondo incontro è tra Marta Ciappina e Patrizia Mattioli. Qui la massiccia presenza del cubo solidamente piantato a terra, attratto dalla gravità in un solenne posare, si è interfacciato a una danza costituita da improbabili equilibri. Un frenetico scivolare di movimenti sempre sul punto di perdere la loro stabilità e ritrovando forza nel mutare costante. La musica potente ed evocativa, calda nel suo erompere e confrontarsi con il solido della scena e il liquido trasmutare della danza. Il terzo incontro tra Silvia Costa e B.E.A, quest’ultimo deludente perché a emergere è stato l’ovvio. Al Cubo ci si è adeguati, si è caduti preda della sua forza di gravità, facendosi attrarre dalla sua pesantezza scontata: movimenti lineari, geometrici quasi al limite della riproduzione di esercizi fisici di training, lentezza e fatica, uniformità di ritmo senza ripensamenti. Esperienza non riuscita, anonima e affrontata con leggerezza e supponenza che trascina inevitabilmente la musica in questo gorgo improduttivo. Più frequento i lavori di Silvia Costa più faccio fatica a comprendere l’elogio unanime. Anzi ne resto sempre più sorpreso. Degne di nota anche tre esperienze performative che esplorano a modo loro il rapporto corpo in movimento e suono. La Volta Ossea di Arthemigra Satellite, duo formato dalla danzatrice Laura Moro e dal musicista Matteo Cusinato. Un percorso interessante. Un alchemico pensamento del proprio linguaggio coreografico che attraverso raffinazioni e sublimazioni cerca una forma altra da se stesso. Una ricerca di un mostro che sia capace di far della sua difformità e differenza un nuovo modello di possibilità. Inner Eye/Outer Ear del duo Margherita Pirotto (danza) e Riccardo Marogna (musica) esplora la convivenza dei due linguaggi. La danzatrice, i cui arti sono legati a microfoni, nel suo muovere incatena la musica a riprodurre o rimodulare il suono prodotto. Graduale la lotta di liberazione di danza e musica da questo rapporto specchiante per trovare una libera coesistenza frutto di autonomia e ascolto reciproco. Alla sudditanza che lega entrambi ci si libera attraverso un processo che, forse, sarebbe stato migliore se più sofferto e graduale, e che conduce nel finale a una feconda libertà prodotta dall’indipendenza e dall’ascolto. Infine Rain Blurs frutto della collaborazione tra la danzatrice Andrea Hackl e la musicista serba Jasna Velickovic. Qui la drammaturgia è un po’ troppo scontata seppure la presenza corporea della Hackl sia impressionante. A chiudere il festival un concerto di Veniero Rizzardi e Anna Clementi che presentano un programma incentrato sui Song Books di John Cage. Alcuni brani tratti da quest’opera pubblicata nel 1970 che esplora le differenti possibili convivenze tra musica e gestualità. I singoli Song possono essere eseguiti sia simultaneamente che singolarmente, creando relazioni indeterminate, non previste. L’opera può essere ricombinata all’infinito come i pezzi degli scacchi che non riproducono mai la stessa partita. A chiudere il concerto Aria per voce sola e Fontana Mix per nastro magnetico. La presenza di Cage a chiusura del festival è come un manifesto. Ripresentare l’opera del compositore che forse più di ogni altro nel Novecento ha ampliato i confini di cosa sia possibile considerare musica, che ha esplorato senza tregua il dialogo tra le arti e i linguaggi insistendo senza tregua che tale dialogo doveva essere cercato nell’indipendenza e non nel reciproco asservimento, è un monito a mettersi in marcia non come pellegrini ma come cacciatori verso regioni poco sicure dove il rischio regna sovrano. Non le strade semplici, che come si sa, non portano al paradiso ma alla perdizione, ma le strade impervie, quelle che costano fatica, quelle che non assicurano niente ma possono dare tutto. Enrico Pastore
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