Il teatro è finzione? Oppure è lo spettacolo? Il teatro è veramente, come recita il programma di scena, “continuamente esposto alla gogna della finzione”? Oppure questo è il destino dello spettacolo? Domande oziose? Forse.
Eppure sembra che la definizione degli ambiti sia ancora ambigua. Non solo gli ambiti anche le funzioni. Cos’è il teatro? E la sua funzione? Non è nient’altro che un Cavaliere degli Specchi il cui compito è rendere cosciente il pubblico Don Chischotte della propria follia? Una sorta di funzione moralizzatrice e maieutica? Oppure è un dispositivo che evoca forze mitiche, un far emergere l’oscuro che serpeggia sotto le vesti splendenti della civiltà, al di là dell’io, della storia e delle storie, al di là del tempo e del progetto? La beatitudine mi ha fatto sorgere queste riflessioni, perché tutto mi sembrava tranne che teatro. Un siparietto, uno snocciolare storielle da teatro borghese come se Strindberg non avesse già detto tutto sull’argomento. Dinamiche familiari e di coppia, roba da sceneggiato tv, con qualche occhieggiamento al comico, tutto annegato nel patetico e nel sentimentale. Come se Carmelo Bene in questo paese non fosse mai nato, come se non avesse mai parlato di questa mania da Croce Verde di fingere d’esser qualcun altro. L’imperio della drammaturgia, di questo esser stato tutto previsto altrove, in questo ritorno costante “dell’assassino sul luogo del delitto”. E gli applausi copiosi, quasi a certificare che ciò che si sapeva sul teatro fosse finalmente riapparso, e tutte le menate filosofiche da teatro di ricerca fossero finalmente state sgomberate. Ah un bel ritorno al teatro di testo! E quegli attori così bravi che mettono in scena i drammi della vita in cui per un momento ci riconosciamo, in un cui per un momento ci prendiamo il lusso di vedere quanta miseria c’è nella vita quotidiana, nel menage familiare e di coppia! Ma è questo il teatro? Oppure è lo spettacolo? Me lo chiedo e lo chiedo con insistenza perché La beatitudine sembra proprio questo: la sconfitta finale del teatro come ricerca, come luogo che sprogetta l’Io, come macchina mitica, come luogo che rende possibile per un momento uno squarcio di luce per l’emersione fulminea della verità dell’essere. Quello a cui si assiste è un drammetto borghese, la storiella patetica della coppia che non ha figli, del figlio malato con la vecchia madre, del sesso che illude per un momento d’esser felici, come se la dinamica romantica possa portar altrove oltre che nel dramma o alla tragedia. L’uscir da sé è cosa che esula dalle dinamiche di coppia o di famiglia. L’uscir da sé è l’annullamento del dramma, dalle dinamiche della rappresentazione. È un uscir dai modi, per dirla alla Carmelo, mica l’inscenamento di polpettoni romantico sentimentali. Il teatro non è mica “roba da maghi e fattucchieri” (come recita il press kit), è affare di sciamani. Il mago finge, lo sciamano è. Perdendo se stesso comunica con le forze che agitano l’essere, il mago vende illusioni mascherate da verità. Non si parla quindi di teatro. Siamo nell’ambito dello spettacolo, dell’enterteinment. Anche se ben fatto e ben recitato è pur sempre un altro sport. Con il teatro non ci azzecca per niente. Enrico Pastore
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