Il
pubblico è invitato a entrare nello spazio, a sedersi circondando lo
spazio di esecuzione. Luci basse, di taglio dai quattro angoli fanno
vivere l’esperienza in penombra, in un luogo in cui anche le ombre
danzano sui muri. Il movimento dei danzatori genera il proprio suono,
genera la musica alla propria danza. Schemi ripetitivi, come di
richiami, come codici che si ribattono da un luogo all’altro. A
volte si sovrappongono due linee, in una sorta di dialogo. Infine la
voce, per ultima come nei miti indiani, dove Prajapati prima crea il
luogo, l’azione e il sacrificio, infine ultima sorge Vac, la
parola. Ma è parola senza senso, sillabe, vocale, semplici lettere
quasi un ricordo di Empty
words di John Cage,
anche se in questo caso non vi è riduzione da un testo primigenio,
ma è qualcosa di antico, come se una tribù cominciasse ad
articolare un proprio linguaggio. E vi è un qualcosa di
tribale, qualcosa di arcaico in questa danza.
Booth
è un lavoro sperimentale, fatto con un gruppo di giovani. Un lavoro
che come dirà Ariella Vidach nell’intervista che segue, è un
processo non finito, un sondare possibilità all’interno di un
lavoro di formazione. Eppure vi è un impianto solido, un lavorio
sulle parti costituenti del linguaggio: lo spazio, il ruolo del
pubblico, la composizione, il corpo del danzatore che compone allo
stesso tempo una partitura di gesti, suoni e parole.
Non mi sento di fare una vera e propria recensione degli altri tre lavori presentati contestualmente alla coreografia di Ariella Vidach, proprio perché processi in via di sviluppo da parte di tre giovani autori: Red Hoquestus di Camilla Munga, Altra danza sul tema della produzione dello spazio di Annika Pannitto, e Borders di Gabriele Valerio. Non sì evincono, come ovvio, degli stili già definiti, si evince però una certa complessità di lavoro compositivo soprattutto nel lavoro di Gabriele Valerio, dove le tre danzatrici riescono a scomporre lo spazio creando punti di vista e ritmi diversi, invitando lo spettatore a creare un suo proprio montaggio. Molto delicata e poetica la coreografia per danzatrice sola di Camilla Monga. Il lavoro di Annika Pennitto è il più astratto, il meno empatico, quello con più ansia di voler dire qualcosa. Tutti i lavori comunque presentano una certa qual maturità che fa ben sperare. Auguro con tutto il cuore ai tre giovani coreografi di trovare la loro propria strada e di continuare il loro processo di ricerca, anche se il percorso sarà difficile, anche se il mondo farà di tutto per impedirglielo. Intervista ad Ariella Vidach EP: Quest’anno a Uovo presenti Booth, una coreografia composta con dei giovani danzatori. Vuoi parlarmi di questo progetto? AV: Volevo che il palcoscenico fosse il luogo dell’evento ma che potesse includere anche chi lo guarda. Ho inserito quindi il pubblico all’interno dello spazio e i performer dentro, che si muovono. E poi c’è il concetto di coralità mi interessa molto. I danzatori si relazionano tra di loro come se si chiamassero, c’è tra loro un forte senso di comunità, come se fossero una tribù. C’è anche una sorta di ispirazione al lavoro di certi operai che hanno bisogno di darsi dei segnali per eseguire in un tempo corretto le azioni. C’è dunque, in questo lavoro, un grande senso di unione volto a realizzare qualcosa insieme. C’è la necessità di essere continuamente connessi. Questo è un esperimento che abbiamo realizzato con un gruppo di ragazzi giovani. Questo non è la mia compagnia, ma è una compagnia che si sta formando da un gruppo di giovani interpreti ancora in via di formazione. Mi interessava instaurare un dialogo con loro e vedere se in un secondo momento potessero effettivamente diventare membri della compagnia. EP: Insieme al tuo lavoro vengono presentati anche tre lavori di tre giovani danzatori Red Hoquestus di Camilla Munga, Altra danza sul tema della produzione dello spazio di Annika Pannitto, e Borders di Gabriele Valerio. Questi lavori sono stati realizzati nel tuo spazio il che testimonia di una certa tua attenzione nei confronti dei giovani autori. In che modo cerchi di far crescere nuovi talenti? AV: All’interno della collaborazione con Uovo Festival, mi è stato chiesto di selezionare tre giovani autori che io ho proposto. Due di questi vengono da un progetto precedente. Noi abbiamo all’interno del nostro spazio una iniziativa che riguarda proprio la giovane creazione. All’interno di questo progetto noi diamo la possibilità a degli autori di realizzare le loro creazioni che verranno proposte all’interno di un festival che si chiama Nao Performing. Facciamo dunque delle residenze attraverso cui, coloro che sono selezionati, possono costruire i loro lavori. Così sosteniamo i giovani autori e cerchiamo di incoraggiarli presentandoli più di una volta. C’è l’intenzione di dare un’occasione ma senza caricare di responsabilità, senza un appesantimento nei confronti di chi sta ancora cercando di formarsi una sua identità artistica. Avevo dunque suggerito di presentare all’interno di uovo qualcosa che avesse un focus sul precedere, sulla costruzione del lavoro e non tanto sul risultato. I lavori quindi vengono presentati insieme, non durano più di 10/15 min., scoraggiando il pubblico verso una visione di un prodotto finito, su qualcosa che avesse una chiusura. Mi interessava moltissimo lavorare sul processo. E il processo è che quando si è giovani si scopre con la pratica, quando ci si trova davanti a dei bivi bisogna fare delle scelte. E mi sarebbe piaciuto moltissimo monitorare questo processo, testimoniare i momenti in cui effettivamente ci sono state queste deviazioni. Vedremo come reagirà il pubblico. Sarebbe infatti auspicabile pensare che il pubblico venga coinvolto in questo processo aperto, sia per confermare delle scelte, sia per dare delle opinioni su quello che è stato realizzato. EP: Questo discorso mi interessa molto per due motivi: da una parte non si fa molto per garantire spazi di ricerca, dall’altra offrire visibilità, perché dei grandi problemi dei giovani autori è quella di riuscire a ottenere visibilità, e la tua azione si dipana su entrambi i fronti. AV: Il rapporto con la possibilità di crescita dei giovani autori per me è una componente fondamentale. C’è una forte necessità di offrire delle condizioni. Pensare di non pretendere ciò che è impossibile, accettare l’errore, pensare non solo a guidare o a dover insegnare ma permettere , concedere un momento di errore, accettarlo come parte di un processo di costruzione. La possibilità di sbagliare è anche l’occasione per scoprire qualcosa che non si era progettato, un’apertura verso altre strade e verso chissà quali altre sperimentazioni. Nel mio piccolo, per quanto posso cerco dunque di concepire la produzione come un momento importante dello sviluppo di qualche cosa e non infiocchettare qualcosa di definito. Mettere dunque in discussione il prodotto finito soprattutto nel caso di coloro che stanno crescendo. EP: Questo è un discorso molto importante. Garantire il processo. E invece oggi tutte le domande di fondi concepiscono solo il prodotto finito, dove uno prima di iniziare un percorso deve avere già chiaro nella sua testa il risultato definitivo. AV: Siamo in una società in cui il PIL è importante, il prodotto è fondamentale. Se non lo possiamo quantificare è come se le cose non valessero nulla. Si capisce che ovviamente cultura e arte hanno bisogno di un percorso diverso per maturare. L’idea del Ministero di varare una riforma che concepisca il lavoro sull’arco dei tre anni ci mette un po’ in linea con l’Europa con cui facciamo fatica a confrontarci perché i nostri programmi sono limitati a fra due mesi, mentre loro lavorano già a fra due anni. Questo sfasamento è un elemento che ci allontana moltissimo da un livello di competitività e ovviamente rende difficile la ricerca. Enrico Pastore
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