Nel mese della festa della donna vorrei parlare di uno spettacolo che racconta storia di donne. Un racconto di un’odissea: dalla Somalia all’Italia. Il viaggio di una donna che è viaggio di una moltitudine. Ifkin è una midgan, ossia una appartenente a una sottocasta nel sistema delle caste tribali somale. I midgan sono paria, intoccabili, invisibili. La guerra rende ancora più terribile la vita della famiglia di Ifkin che viene costretta a vivere in un campo profughi interno alla Somalia, un luogo che dovrebbe proteggere dalle violenze e invece si rivela luogo di violenza e di stupri. Ifkin viene così abbandonata dal marito, perché lo stupro la rende impura tra gli impuri. A Ifkin non resta che affrontare il viaggio verso l’Europa, nella speranza di trovare un mondo migliore. Non ha più nulla da perdere. E così il deserto attraverso l’Etiopia, il Sudan, l’oasi di Kufra, luogo terribile dove in agguato ci sono schiavisti, sfruttatori, malavitosi di ogni genere pronti a trarre vantaggio in ogni modo da questi viaggi della speranza; e poi verso Bengasi o Tripoli nella speranza di trovare una barca o un gommone che faccia vela verso l’Italia. Si parla di anni di cammino terribile, colmo di rischi, di nuove violenze e orrori, soprattutto per una donna abbandonata dal marito e senza difesa. Si parla anche di naufragio, di gente che scompare ingoiata dal mare. Troppi morti che scompaiono nel nulla. Non contati, non ricordati. E poi l’Italia, la burocrazia, le detenzioni nei Cie, e infine la libertà in un paese che accoglie di malavoglia, perché costretto, perché non sa che fare di fronte a un problema abissale. E Ifkin si ritrova ad essere una paria, un’invisibile, in un paese in cui sognava di trovare finalmente pace, lavoro, tranquillità anche economica.
Suad Omar, anche lei somala, racconta in scena questa storia terribile, con una certa grazia, accennando agli orrori ma senza calcare la mano, anche se più che mettere in luce il problema a volte si affanna a indicare i colpevoli, a lanciare accuse. La musica stupenda e molto azzeccata di Taté Nsongan accompagna il racconto. Suad è una mediatrice culturale che ha raccolto molte storie di rifugiate somale, le ha trasposte in un testo letterario facendo un montaggio di queste sue interviste, creando una sorta di esperienza “zero” in cui quasi tutti i rifugiati si possono riconoscere. Le infinite sofferenze di un viaggio colmo di rischi che spesso e volentieri si interrompe tragicamente, senza lieto fine, e anche quando si conclude non sempre l’esito è felice. L’approdo a Lampedusa per molti è il frantumarsi di un sogno e di una speranza. La regia di Gabriella Bordin è minimale. Poche sedie vuote sulla scena, su cui a un certo punto vengono posati i vestiti dei tanti annegati, pochi cambi luce. Una povertà un po’ troppo povera, che denota più una mancanza di idea registica che scelte motivate. É questo il difetto principale di un lavoro di per sé avvincente. Assistendo a questo spettacolo si viene colti, all’uscita, da una ridda di domande. Ci limitiamo a considerare che masse di profughi approdano a Lampedusa dimenticando che questi viaggi della speranza non cominciano in Libia ma partono da molto lontano: dal Corno d’Africa, dall’Africa Equatoriale. Un problema di migrazione indicibile, difficilmente risolvibile, che ogni giorno accumula morti, non solo nel mare, anche nel deserto, e nuovi schiavi. Un’economia del dolore. E dietro tutto ciò immani speranze, legittime, ma che difficilmente potranno essere realizzate. E poi l’Europa che è sempre meno Comunità, e sempre più agglomerato di Stati con politiche diverse e diversamente conciliabili, e soprattutto inadatte al problema. L’accusa che viene lanciata da questo lavoro è diretta: l’Occidente è colpevole. L’Occidente che proclama a gran voce i diritti fondamentali dell’uomo, non realizza, non applica ciò di cui predica. Ma può farlo? L’Occidente è in grado di affrontare la sfida che le onde di migrazione gli pongono? È questa la vera domanda. Quando dei popoli, a causa di guerre, malattie, siccità, povertà, decidono di spostarsi da un luogo a un altro in cerca di una vita migliore, tale movimento diventa inarrestabile, come una valanga. Dovrebbero cambiare le condizioni. Dovrebbero finire le guerre, dovrebbe sparire la fame e la povertà. Le politiche miopi, che fissano il loro sguardo sull’approdo sulle nostre sponde o sulla partenza delle carrette del mare dalla Libia, dimenticano che tutto questo parte da lontano, che le cause sono complesse, intricate, e che per risolvere tutto questo forse bisognerebbe rifondare una civiltà diversa e più umana. Ma basterebbe? Perché anche nei mondi non occidentali qualcosa dovrebbe cambiare, dovrebbero cessare le violenze culturali, le discriminazioni, le pratiche di mutilazione femminile. Spettacoli come questo hanno il potere di farci gettare uno sguardo nell’abisso. Ci mettono di fronte a uno dei problemi esiziali di questo momento storico. Problemi a cui è difficile dare risposte. L’importante è porsi le domande, porsele in maniera corretta, senza pregiudizi in un senso o nell’altro. Spettacoli di questo tipo hanno anche un altro merito: quello di invitare gli artisti a cercare materia di lavoro nella realtà di oggi. A scavare e incontrare la realtà laddove è più torva e intricata. Scendere in strada per farsi sguardo sul mondo e non chiudersi in una ricerca sterile (qualora si riesca a farla), non chiudersi nelle sale prove (laddove si abbia la fortuna di averle), ma scendere in strada, incontrare i problemi perché nel chiuso del teatro non si incontra il reale. Enrico Pastore
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