EP: Max come nasce il tuo lavoro?
ML: Io ho una formazione come documentarista. Ho lavorato nell’ambito dei documentari sociali per una grossa cooperativa – la Valdocco – all’interno della quale ho collaborato con un bravissimo e grandissimo documentarista, Alberto Coletta, e con lui ho imparato tantissime cose. Per esempio capire cos’è l’obiettivo, la telecamera fissa, che sta lì e guarda e cerca di non invadere. E ho anche tutta una formazione come educatore. Diciamo che ho sempre un po’ navigato nel sociale. Però devo dire che questo tipo di occupazione non mi ha mai permesso di percepire un vero stipendio che mi permettesse di pagare l’affitto. Così ho cominciato a fare tutti i concorsi possibili. E questo intorno ai trentanni. Ho fatto proprio tutti i concorsi che mi capitavano. E ho fatto anche quello per i vigili urbani. La disgrazia o la fortuna, non lo so, ha fatto si che vincessi quello per vigile urbano nel comune di Venaria, vicino a Torino. Qui ho cominciato a esercitare le classiche funzione di vigile anche se continuavo a mantenere viva la mia passione per il teatro. Però già lì a Venaria ho provato a inserire quello che facevo nei miei lavori. In seguito ho avuto il trasferimento a Torino e ho lavorato al mercato di Porta Palazzo. Questo per tre anni e mezzo. Situazione che già conoscevo perché, sempre con la Valdocco, facevo questi giri turistici, tipo la Turin Dakar o Cento per cento arabica che portavano i torinesi a conoscere e a scoprire i “nuovi” torinesi. Già in quella situazione avevo cominciato ad assimilare l’ambiente e le persone. E così in questi tre anni sulla Piazza, in cui mi sentivo come a casa, mi sono inserito ancora di più, mi sono immerso nel mercato con tutto quello che significa. E mi sono accorto che a Porta Palazzo possono succedere delle cose che possono capitare in tutte le città, ma nello stesso tempo, certe cose che succedono a Porta Palazzo non possono accadere altrove. Per me questa è stata una specie di illuminazione. Tant’è che anche il titolo dello spettacolo il Signore Gesù sta arrivando: occhio ai portafogli! racchiude un po’ questi estremi, due cose che stanno agli antipodi. Così avendo una formazione attoriale, perché ho studiato per fare l’attore, per esempio ho frequentato l’accademia di Philip Radice qua a Torino, mi sono appassionato al personaggio clownesco e ho provato a costruire su questo canovaccio i personaggi che incontravo sulla piazza. I miei personaggi quindi non sono altro che il frutto di un attento studio, ma anche confronto e scontro, una vera e propria relazione con lo zingaro, con il mercataro, con il marocchino, con il kaboo nigeriano, con il venditore senegalese. E tra questi ho incontrato molte persone a cui sono molto affezionato, malgrado il ruolo in cui io, in quell’ambito, mi trovo a rivestire. Il gioco è stato un po’ anche questo: presentare i personaggi così come tutti li conoscono e poi cercare di dargli un’altra visione. È la curiosità che ti spinge ad approfondire e quindi a cogliere un po’ più di verità. Sia nella parte esteriore, nel gesto e nella voce, sia più a livello intimo. Per esempio con il personaggio della zingaro quando racconta la sua vita nel campo, di sé, di sua moglie e di suo figlio, o come il tassista abusivo che fa quel lavoro, sì, per campare, ma anche e soprattutto per i suoi amici, per la sua famiglia, per la sua comunità. E il tossico, quello che sta alla palina dell’autobus, quello che è deriso un po’ da tutti. La presentazione del personaggio del tossico potrebbe essere quella che farebbe qualsiasi cabarettista, però in questo arrivano anche degli aspetti terribili della nostra società, e così mentre ridi nello stesso tempo ti dici: “ma che cazzo rido?”. Ecco l’ambito in cui mi piace giocare è proprio questo. EP: dopo aver visto il tuo spettacolo mi sono trovato a pensare al concetto caro agli spagnoli del siglo de oro, del Gran teatro del mondo. In fondo Porta Palazzo e il suo mercato è un gran teatro dove tutti, ogni giorno, recitano la propria parte, assumono un ruolo e lo sviluppano. Dallo zingaro che affina le sue arti di cerretano, al venditore abusivo che fa finta di non capire, al mercataro che mette in mostra le sue abilità di venditore. I tuoi personaggi in fondo ricostruiscono una sorta di commedia dell’arte. ML: Sì, è un po’ quello. Ognuno agisce secondo i propri ruoli all’interno di questa grandissima piazza. La meraviglia è che comunque tra persone sensibili ci si riconosce. E a quel punto i ruoli vengono a decadere, svaniscono in un incontro vero. Lì e in quel momento. E poi il rispetto. Io per esempio, in base alla mia esperienza di vigile urbano classico, io ero contento di interpretare quel ruolo all’interno di quel contesto. E soprattutto quando nell’esercizio del ruolo avveniva la scoperta che sotto la maschera c’era qualcos’altro, la scoperta delle persone, degli individui. La scoperta delle persone e della loro disponibilità al dialogo e alla conoscenza. E mi piaceva cogliere lo stupore negli occhi dell’altro quando si diceva: “Ah vedi, mica tutti i vigili son malvagi!”. Questa è la cosa interessante che ho cercato di portare nel mio lavoro. Questa scoperta dell’individuo sotto la maschera. EP: Quello che ho trovato realmente interessante del tuo lavoro è che l’intenzione politica, che c’è ovviamente, non appare mai invadente. Non hai proclami da fare, teorie da sbandierare. Questa visione appare, affiora con delicatezza, lasciando che ognuno prenda posizione come crede. In un certo qual modo ti fai da parte, pur dicendo la tua. ML: Per questo devo dire grazie alla mia formazione come documentarista. Camera fissa che riprende. Non invade. Non dice la sua o per lo meno cerca di non farlo. Non ci sono fronzoli, luci, accorgimenti. Si riprende ciò che c’è. L’intento che volevo che in qualche modo affiorasse, mantenendo la mia idea, la rappresentazione di un luogo e poi tu, pubblico, fatti la tua idea. Senti cosa ti succede dentro. Certo che quello che presento sono caratteri, sono costruiti a volte molto sopra le righe, però sono quello, sono frutto dell’osservazione della realtà, del vivere quella realtà. O almeno io ho cercato di lavorare in quella direzione. Niente di più, niente di meno. EP: Max tu citi il lavoro con il documentario, ma se posso dirti, il tuo lavoro comunque si discosta da quello che oggi si chiama teatro documentario. I tuoi personaggi sono reali, ma in un certo qual modo se ne discostano, diventano altro, diventano dei piccoli miti, delle icone di vita vissuta. E questo scarto è il teatro, l’osservazione che il teatro fa del mondo. Il teatro documentario cerca in qualche modo di riprodurre, tu trasformi. ML: Sì certo. La mia attitudine da documentarista è finalizzata al processo di costruzioni e di raccolta del materiale. Dopo di che interviene l’attore che trasforma e costruisce. Presenta la realtà dopo questo processo. Ma la raccolta delle situazioni e dei caratteri avviene assolutamente in maniera documentaristica. È frutto di osservazione e raccolta. Io parto da lì, poi ovvio la parte più intima del lavoro la devi sentire se no il personaggio non affiora. EP: Eppure devo dire che questo atteggiamento è comunque raro. In molti lavori di teatro sociale non affiora così tanto la realtà perché è sempre presente una certa visione compassionevole, un po’ sdolcinata, questo trattar la realtà un po’ con i guanti, senza prendere il toro per le corna. Si avverte sempre la distanza della cultura dal fatto reale. Nel tuo caso questa distanza non si avverte. ML: Questo secondo me dipende da quanto ognuno vuole farsi coinvolgere dal materiale con cui viene in contatto, dalla storia che stai raccontando. Sia a livello fisico che mentale. Io quando lavoravo come educatore con ragazzi disabili, portatori di handicap, io non mi sono mai trattenuto dal prenderli per il culo. Ed era fondamentale per loro venire trattati nell’assoluta normalità. Per esempio mi è capitato di dover preparare un ragazzo disabile per le paraolimpiadi di Barcellona, e io lo cazziavo come un qualsiasi allenatore avrebbe cazziato il suo atleta. E questa cosa tra me e lui ci ha permesso di raggiungere un livello di rapporto assolutamente paritario, sincero, ognuno con i propri limiti. Enrico Pastore
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