Questo mese voglio parlare di un piccolo spettacolo che nella sua semplicità mi ha molto colpito. Una semplicità che non è banalità. Pochi elementi di costume e di scenografia. Un attore e un musicista. Una cosa a costo zero eppur piena di commovente semplicità. Ancora questa parola. Mi ripeto. Ma a volte sono le cose semplici che stupiscono. Come un tramonto, una carezza, la prima primula a primavera. Max Liotta ha il pregio di aver costruito uno spettacolo con quello che aveva sotto gli occhi, senza teorie, orpelli, prese di posizione, proclami.
Il mercato di Porta Palazzo, quel mercato che frequenta tutti i giorni per lavoro è diventato materiale di racconti, di piccole scene che rappresentano e raccontano un mondo complesso. Razze, lingue, storie, disagi, povertà, pregiudizi e luoghi comuni della vita di tutti i giorni, prendono vita nei suoi racconti. Pezzi di vetro colorato che come nelle vetrate delle cattedrali diventano mosaico che racconta. Così, semplicemente. Senza voler essere altro che se stesse. Vita vissuta non plasmata da operazioni intellettualistiche, vita che non diventa cultura, ma resta ingenuamente ciò che è con tutta la sua meraviglia, tutta la sua terribile violenza. Un mercato che diventa porto, un porto senza il mare, dove le genti, le merci, le lingue e le storie si mescolano, diventano trama di un arazzo come le scene intessute sulla tela di Aracne. Tutto prende vita, dal fruttivendolo barese che racconta la sua vita da immigrato dal parlato mezzo piemontese che testimonia il suo tentativo di integrazione mal riuscita, al venditore cinese, allo zingaro con i suoi trucchi da inveterato cerretano, all’ambulante di colore che lotta contro la burocrazia nell’unico modo che conosce: far finta di non capire. E poi il tossico, il disadattato, colui che frantumato dal sistema, sopravvive negli interstizi, grazie alle piccole furberie. Una città invisibile sotto gli occhi di tutti che Max Liotta fa rivivere con l’arte antica del cantastorie. La sua voce si trasforma nelle mille parlate del mercato, riproduce il vissuto, lo trasforma in racconto senza falsarlo con la propria visione. Il suo spettacolo è caleidoscopio, è vita. Tutto un mondo di problemi, di incomprensione, di difficile convivenza si dipana in questi racconti senza il gravame delle prese di posizioni politiche facendo con ingenuità ciò che il teatro dovrebbe fare sempre: essere il luogo da cui si guarda il mondo. Non c’è bisogno di creare nessun Theatre du reél, nessun teatro documentario, nessuna teoria astrusa. E soprattutto non servono le lamentele sulla mancanza di fondi, di sostegni, sullo Stato che non c’è, su un ministero o un assessorato che latitano. Idee per costruire teatro sono lì, fuori dalla porta, a gratis. Basta essere osservatori, basta farsi impregnare dalle immagini come una spugna. Non c’è bisogno di testo, di scene, di fumi e raggi laser. Bisogna tornare a essere osservatori del mondo e con umiltà provare a raccontarlo con quello che si ha sottomano senza pretendere che ci venga dato quello che forse non serve. Questo non deve essere una scusa per la latitanza delle istituzioni nei confronti di tutto ciò che è cultura vera e non sfilata di veline e tappeti rossi inutili. Il sostegno serve ma qualora latiti non ci si deve nascondere dietro la scusa opposta: non ho il sostegno quindi non posso fare lavori di qualità. Max Liotta dimostra che lavori di qualità possono nascere nonostante. E il suo è un teatro che nasce fuori dal teatro come ormai avviene da decenni. Incapacità cronica del teatro istituzione di divenir luogo di teatro nuovo e vitale. Il lavoro di Max Liotta ha però due pecche che minano un po’ il suo valore. Un drammaturgia che nonostante la commovente semplicità ogni tanto stenta a essere organica, e una distribuzione molto frammentaria che non rende giustizia alla bontà del lavoro. Quello di Max Liotta è una gemma grezza, che avrebbe bisogno di lavoro di cesello per essere un diamante di valore vero. Qui ecco manca il sostegno. Se lavori come questo potessero avere il tempo di essere provati, raffinati, fatti crescere con il tempo e il lavoro che meritano forse avremmo la possibilità di vedere opere valenti che ci lasciano nell’animo una visione del mondo. E se poi i teatri si decidessero a cercare queste gemme grezze e dato il momento di difficoltà economica, a puntare su lavori a costo zero, forse certi artisti avrebbero spazi più consoni per presentare i propri lavori. E invece si continua a presentare lavori costosi e inutili, pieni di cast televisivi, commediole da italiano medio. E ciò che invece vale si arrabatta: due date qui, tre date là e poi si soccombe. Qui c’è la vera latitanza del teatro: nella visibilità, nel congiurare contro la visibilità di ciò che con tanta fatica mette fuori la testa dalla terra e dal fango. Un ottimo lavoro si può fare senza danaro, ma un ottimo lavoro non sopravvive all’indifferenza! Enrico Pastore
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