Dal 15 al 20 dicembre scorso ho partecipato alla seconda edizione della International Performance Art Week a Venezia. Ero in una situazione leggermente fuori quadro rispetto ai miei interessi teatrali consueti ma amo talvolta cercare e frequentare i luoghi ibridi dove possono avvenire generazioni equivoche, clandestine. Trovo che il teatro, non solo quello agito ma anche quello pensato, deve imparare a trasformarsi lasciando i luoghi e gli ambiti deputati dove ormai non avviene più niente. Deve incontrare l’altro da sé per ritrovare una funzione: deve esplorare la metamorfosi. Così sotto il pungolo di questa impellente curiosità mi sono spinto ad esplorare una manifestazione il cui unico oggetto era la performance, una forma d’arte che si pone in una zona ibrida, al confine con la scena senza esserlo veramente anche se talvolta ne mutua stilemi e ritualità. Azioni agite non simulate, processi di conoscenza e di critica alla realtà al cui centro c’è l’artista con il suo corpo, oggetto e soggetto delle azioni in atto. Una sorta di filosofia pratica si direbbe, un mettere in atto delle azioni motrici di pensiero, processi che dovrebbero e potrebbero stimolare la coscienza della realtà, metterla in crisi o semplicemente metterla in evidenza sotto una luce diversa, una semplice esperienza di sfasamento che dovrebbe stimolarci a pensieri nuovi. Qualcuno pensa anche che tali performance siano un’occasione per riformulare rapporti relazionali e sociali, un luogo privilegiato dove l’azione dell’artista riformuli i moduli comportamentali della società/pubblico impossibilitata, nell’in-serimento nel processo artistico, a riprodurre le solite consuetudini, un po’ obbligata a uscir dal seminato.
Il luogo era suggestivo. Palazzo Mora. Un vecchio palazzo veneziano a metà di Strada Nova nei pressi della Ca’ d’Oro. Un palazzo affascinante, nel suo essere un po’ scalcinato, corroso dal tempo, pieno di storia e senza un presente. Nelle sue stanze affrescate, ricoperte da soffitti a cassettoni da cui pendevano, ingombranti, lampadari di vetro di Murano si dipanava un percorso in un certo qual modo onirico come d’altra realtà o dimensione rispetto a ciò che avveniva in calle dove, normale, scorreva il flusso abitudinario della città. In quasi ogni stanza un avvenimento che si appropriava dello spazio creando un mondo con il suo ritmo e la sua velocità, totalmente separato da ciò che avveniva nelle altre stanze. E il pubblico passava da un mondo all’altro, pronto all’esperienza ma anche leggermente inquietato dall’essere sempre estraneo e quasi invasore. Si entra in punta di piedi, con timore di disturbare, si cerca un posto per vedere e osservare ma come se non si fosse presenti: ci si accorge che quanto avviene davanti ai nostri occhi potrebbe avvenire anche senza la nostra presenza. Così si passa dalle strane ritualità di Vela Phan provocate dal divenir santi alla morte dei signori della droga e dei banditi messicani, come quel Jesus Malverde venerato nel Chihuahua e nel Sinaloa come santo protettore, alle strane collaborazioni di Sandra Johnston e Alastair Maclennan; dall’inquietante presenza del tempo che scorre nelle azioni di Marilyn Arsem, all’azione di gruppo di Melissa Garcia Aguirre in cui grani di mais accuratamente scelti e contati vengono senza pietà macinati e polverizzati come i 30.000 desaparicidos delle guerre del narcotraffico in Messico. Molte le cose che avvengono. Non sempre tutto è chiaro. Si sente come il bisogno di qualcuno che aiuti a decrittare i messaggi. Un’altra stanza, un’altra esperienza. Julie Vulcan occupa una stanza in cui su un lettino si sdraia una persona del pubblico a cui viene dedicato il trattamento di massaggi, lavaggi e cure che si riserva ai morti operazioni per una volta dedicate ai vivi. Il tutto immersi in un bianco abbagliate, di pareti e di teli. Nella stanza a fianco invece si scatena la violenta azione di Benjamin Sebastian denominata 3 cycles of otherness: prima azione: farsi tatuare sul corpo la parola “Frocio”; seconda azione: scansionare le parti del proprio corpo e sparpagliare le foto sul pavimento; terza azione: urlare la parola “wolf” mentre un batterista si scatena sul suo strumento. Il tutto mentre nudo ha infilato nell’ano una corda a cui sono attaccate lunghe corna di cervo. Altrove Sarah-Jane Norman incide ossa. E un po’ più in là una donna sottovuoto cerca per quanto possibile di trovare spazio e aria. Si tratta di vacuum della coppia Andrigo/Aliprandi. Alla sera oltre a queste performance di lunga durata, ripetitive e presenti per più giorni, prendevano vita interventi spot, performance di più breve durata, a occupare la grande sala centrale, o il cortile o le scale. Così si vagava da una stanza all’altra, vagamente consci che qualcosa stava avvenendo, un po’ saturati dall’abbondanza, come quando si va a una degustazione di vini e dopo un po’, nonostante la qualità, il palato diventa insensibile. Molti mondi separati a mala pena da una parete, mondi complessi, la cui frequentazione un poco inquietava nell’apparir vagamente autoreferenti, come isole sperdute. Un po’ come di fronte allo strano rito di Zai Kuning. Un qualcosa che richiamava il mondo degli sciamani, ma i cui orizzonti culturali sfuggivano per la distanza, e sfuggivano tanto da rendere importante solo la forte presenza del performer, non le azioni che veniva a compiere per noi solo ideogrammi intraducibili. Tutto il mondo simbolico veniva a perdersi in un’opacità impenetrabile. A volte invece l’incontro con la cultura altra diviene potente e comprensibile nonostante la differenza linguistica come nel caso del reading di Regina José Galindo. La sua poesia prendeva vita con forza estrema, il suo dire mostrava un mondo d’amore e di violenza, di cose perdute e cose mancate. Un’immagine di una terra lontana, dominata dal senso di perdita e di ferocia in cui si può solo morire e ammazzare e nell’attesa amare con forza e abbandono. Alcuni interventi erano però così estemporanei da risultare semplici trovate un po’ spiazzanti: come la ragazza in topless seduta sulla sdraio nel cortile, la sera, nel freddo dell’inverno. Le si passava accanto pensando che in fondo bisognava avere un bel coraggio a esporsi così agli elementi. O come quando si incontra la ragazza nuda sulle scale che mostra il suo corpo pieno di scritte e che trasforma la semplice lettura in un atto erotico un po’ datato. Quando altre arti fanno irruzione in questo spazio succede che tali arti, siano musica o danza risultano un po’ invadenti, perché il loro tempo, il loro fine, sono distanti da quelli della performance art. C’è un’incapacità reciproca di adattamento. Per esempio il tempo: si potrebbe pensare che performance che durano più giorni, o pochi minuti facciano un uso del tempo più libero rispetto ad altre arti performative per cui i tempi sono quelli medi di una rappresentazione (a parte casi limite). Ma è proprio la concezione del tempo a essere diversa. Il tempo utilizzato dai performer è Kronos il tempo che utilizzi a fare una cosa. Né più né meno. È lo scorrere del tempo nella clessidra, il vanificarsi del tempo nel suo semplice scorrere, il tempo che esaurisce ciò che si sta facendo. Il tempo della danza, della musica, del teatro è un tempo ritmico, verticale, complesso. Un tempo pieno in cui più cose accadono ognuna con il suo ritmo, creando un tempo diverso da quello della vita. Non è solo scorrere è fluire, rimbalzare, sovrapporsi, scalpitare, perfino andar contro il tempo. E questo si nota. La gente abituata alle performance diventa insofferente di fronte alla durata della danza di Andrea Hackl. Ma verso un’altra cosa la performance diventa impaziente e un poco intollerante: la tecnica di esecuzione che per danzatori, attori e musicisti è imprescindibile. Qui si fa senza curarsi del gesto pulito, bene eseguito. Si fa. Ma non con sprezzatura, con indifferenza e noncuranza e così l’efficacia a volte si vaporizza. Come nell’azione di Martin Renteira. Nel suo Erosion. Entropic Action lui è appeso al soffitto da un insieme di carrucole e pesi. Sacchi appesi pieni di sabbia lo tengono sollevato. due assistenti forano i sacchi, da cui cade lenta la sabbia che viene imbustata e regalata al pubblico. Lentamente l’artista scende. La sabbia però cade in maniera diversa, le bilance si sfasano, l’artista viene risucchiato dalla sua stessa azione. Il dolore e la difficoltà di liberarsi creano un dramma non voluto e tutto il resto si perde. Il pubblico si concentra lì, nella sua disperazione, fatica, impotenza. L’opera è diventata bocca che inghiotte e fagocita l’artista non padrone dell’elemento da lui stesso creato. Tecnica non è solo tecnicismo. È anche sprezzatura: “che nasconde l’arte e dimostri ciò, che si fa e si dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi” per usar le parole esatte di Baldassar Castiglione, che poco oltre rileva il problema che ho cercato di metter in luce: “Da ciò credo io che derivi la grazia, perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia, e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’essa si sia”. Ovvio che i tempi sono cambiati, non sono più importanti le stesse cose, ma il concetto di sprezzatura resta: padroneggiar l’arte propria quasi con indifferenza, con sconcertante facilità, cavalcare l’opera e farne scaturire grazia e mistero. Altrimenti il destino è quello di Martin Renteiro: disarcionato dalla sua creatura, naufrago sulla sua stessa zattera. E così, preso da queste immagini e riflessioni, passeggiando nelle sale un po’ stupito, un po’ stranito, nei giorni in cui sono stato testimone di questa manifestazione mi si è sovrapposta una chimera sognata da Baudelaire e di cui lessi una volta. Nel sogno Baudelaire si recava con una certa urgenza a recapitare un suo libro osceno alla tenutaria di una grande casa di prostituzione. Baudelaire, alla ricerca della maitresse si avventura in questo grande palazzo pieno di stanze e cunicoli in cui le ragazze intrattengono ogni genere di clienti. Dopo un po’ l’attenzione di Baudelaire è attratta dai quadri alle pareti. Oltre alle consuete immagini oscene, sono presenti in grande quantità anche figure egizie, ardite architetture, immagini scientifiche, aborti esposti assieme alla data di concepimento e al nome della madre, probabilmente qualcuna delle ragazze che fanno la vita nella grande casa. Baudelaire mentre attende vagola per il museo/bordello catturato dalle immagini finché giunge in una sala dove su un piedistallo è assiso una sorta di mostro vivente i cui capelli formano una lunga coda di caucciù. Baudelaire intrattiene con il mostro una leggera conversazione sul dolore e sulla noia finché non viene svegliato dalla moglie. Il sogno del bordello/museo mi appariva di continuo mentre anch’io mi aggiravo nelle stanze di Palazzo Mora. La ragione per qualche giorno mi è sfuggita poi ho cominciato a capire. Nel mostrarsi, nel compiere azioni così davanti a un pubblico, come in una fiera, vi era qualcosa che avvicinava al mondo della prostituzione. E con questo badate bene non sottendo alcun senso moralistico o bigotto. Constato che nell’offrirsi allo sguardo, nel mettersi in “mostra” vi è un che di lubrico, indecente, a suo modo osceno che Baudelaire aveva compreso benissimo seppur in sogno. In fondo lui pure era andato a offrire il suo libro definito osceno alla proprietaria del bordello/museo. Il sottoporsi allo sguardo altrui ha un che di perverso. Qualcuno mi dirà che anche il teatro si pone sotto lo sguardo del pubblico e io rispondo che proprio per questo l’attore è sempre stato circondato da un’aura di cattiva fama, come se provenisse dai bassifondi, da luoghi equivoci frequentati da ogni genere di vizio. Eppure questo esporsi è un obbligo, un bisogno a cui non ci si può sottrarre. Fare e farsi vedere. L’azione e il gesto diviene potente solo se visto dall’occhio altrui. Un occhio che scruta in ogni dove, un occhio che fruga e cerca di penetrare l’opacità dell’essere per comprendere. C’è un intento come di stupro quando si guarda intensamente l’azione che si svolge davanti a noi. Per questo si prova sempre un po’ di vergogna da entrambe le parti. Eppure ciò è necessario se si vuole affrontare la realtà. Ed è necessario ancor di più con la performance art perché è arte che deperisce nel suo farsi. Creata e distrutta nel tempo del suo compiersi di fronte all’occhio che la guarda e prova a interpretarla (a volte non è nemmeno contemplata la ripetizione, le cose si fanno site specific, svanito il luogo e il tempo, svanisce l’opera). Questo guardare e essere guardati diviene il teatro dell’esperienza che pubblico e performance fanno insieme. Nasce una sorta di relazione e di comprensione anche quando questa sfugge completamente. Si è fatta un’esperienza insieme, per quanto inutile. Questo è quanto. E tale esperienza non ha niente a che vedere con l’estetica. E nemmeno con il risultato. Siamo di fronte a dei processi il cui intento è quello di affrontare la realtà, per esorcizzarla, comprenderla oppure denunciarla e tale processo avviene tramite il corpo, un corpo che si mostra di fronte a altri corpi. Ciò non ha più niente a che fare con l’estetica. Ha a che fare con il mistero della realtà e della vita. Come nel caso di Baudelaire e della sua conversazione con il mostro (una sorta di performer ante litteram posto continuamente su un piedistallo, creatura nata nel e per il bordello/museo) ciò di cui si parla è di noia e dolore. La vita, la morte, il tempo. Niente a che fare con l’estetica. Si riflette sulla realtà e sulla vita. E questo senza alcuna ansia di tecnica e di risultato. Si fa. Si procede. Si guarda. Il tutto svincolato dall’utile e a volte persino dal significato. Non sempre tutto questo induce a una maggiore consapevolezza sia nell’artista che nel pubblico. Talvolta l’esperienza diventa per l’artista una sorta di masturbazione pubblica, masturbazione a cui il pubblico assiste quasi di malavoglia, oppur si cade nella clinica, nel far della terapia di gruppo. Altre volte l’opacità dell’opera è tale e tanta da far si che nessun circolo virtuoso si instauri così che artista e pubblico rimangono su pianeti alieni e così si guarda e passa. Autoreferenza, opacità, totale chiusura. Sensazioni di esser di fronte a un rebus da interpretare, di fronte a “geroglifici di cui ci manca la chiave” per dirla alla Baudelaire. Ma la vera sensazione è che talvolta sfugga il nesso con la realtà. Il solo fatto di essere nel museo, nel luogo deputato frequentato solo da addetti ai lavori, appassionati d’arte, artisti, galleristi e critici, fa un po’ frequentazione settaria. Si avverte che la vita è altrove, che bisognerebbe incontrare la gente che nulla sa di queste cose e, forse solo allora, qualcosa potrebbe veramente nascere di inaspettato, di poetico, di violento. Forse solo uscendo da questo luogo un po’ appartato e facendo le cose dove la vita scorre davvero impreparata di fronte a queste procedure, forse solo allora qualcosa di vero apparirebbe. Così sembra di esser un po’ catacomba, un’eresia che si compie nel sottosuolo, nell’ombra mentre il mondo ignaro va avanti senza. In fondo a questo ci ha invitato Tanya Bruguera, durante il suo incontro con gli studenti dello IUAV di Venezia. Incontrare la gente. Uscire dal Museo. Eppure la realtà politica, le grandi questioni son pure entrate nel museo come per le performance della stessa Bruguera, con i suoi Manifestos, volti a gridare al mondo i diritti dei migranti, o come il reading della Galindo, o l’azione di macinatorua del grano della Aguirre. Nel museo queste azioni perdono un po’ della loro forza perché in fondo il pubblico del museo è un pubblico facile. In strada le cose si complicano, si scontrano universi culturali distanti, tutto può esplodere o implodere perché non è garantita l’accettazione di quel che avviene. Bisogna rendere atto agli organizzatori, il duo artistico VestAndPage, di aver prodotto una manifestazione di alto livello con mezzi di fortuna (come verrà detto dai curatori stessi nell’intervista che segue, il tutto è stato fatto con pochi soldi e molti servizi In kind palazzo compreso). Molto è da fare per migliorare una manifestazione che ha il pregio di portare nello stesso luogo artisti e processi artistici da tutto il mondo. Un’occasione vera di scambio e di riflessione, che va però più ampiamente aperta e condivisa con un pubblico più vero. Uscire dal museo se non altro almeno parzialmente. Includere i luoghi di vita vera, scontrarsi con la vita senza la protezione delle mura del museo. Se no si rischia di creare una sorta di riserva indiana in cui tutto può avvenire proprio perché è un luogo per le cose strane, dove i “mostri” vivono sul piedistallo e la gente passeggia conversando con le ragazze. Il bordello/museo era frutto di un sogno, lucidissimo e bellissimo per carità, ma se l’arte vi deve essere confinata è giusto che bruci. Enrico Pastore
Scrivono in PASSPARnous:
Aldo Pardi, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Enrico Pastore, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Francesco Panizzo. |
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