Perché sono andato alla Biennale Musica se scrivo di teatro? Perché amo cercare le opere ibride, andare laddove le arti performative si mischiano, si incontrano, e il programma segnalava numerosi sconfinamenti con cinema, danza, teatro musicale. E poi mi piaceva il titolo: Limes. Un bel titolo ma...
Mai fidarsi del significato che si pensa abbiano certe parole. Mai fidarsi delle parole in generale. Nascondono sempre dei pericoli. Piccole insidie che scardinano il pensiero. Soprattutto le parole antiche. Quelle colme di profondità. Limes. Tutti sembrano convinti del significato di questa parola. Confine. Il direttore Ivan Fedele parla di confini sempre più sfuggenti nell’era della globalizzazione, di confini da superare, di confini tra le arti che vanno scavalcati. Nei sette giorni che ho passato a Venezia per assistere alla Biennale Musica, qualcosa però non mi tornava. Mi turbava persino. Vedevo ovunque i manifesti della Biennale con stampata in grande la parola Limes e oscuri, lontani ricordi scolastici mi dicevano che qualcosa non andava nella traduzione che di questo termine si dava. Così sono andato a rispolverare i libri, quelli da tempo intoccati, un po’ dimentichi negli scaffali in basso, quelli dove non si guarda mai perché sono scomodi da frequentare. E così ho scoperto cosa non mi tornava: Limes non è un confine. Limes è una strada. Fortificata. Militarizzata. Cosparsa di insediamenti e accampamenti militari, zone di rifornimento, piena di castra e castella. Quindi, come dice la Treccani: «mal si tradurrebbe il concetto latino di Limes usando in sua vece la parola “confine”». Limes è un vettore di penetrazione in terre sconosciute al di là del confine. È una strada che permette incursioni in territori nemici. Limes è il sentiero che porta al di là del confine dove è ignota la geografia per mancanza di mappe. Lungo questa via si conquistava l’ignoto dominato dai barbari. Questo all’epoca di Augusto e del Primo Impero. Poi, sempre come dice la Treccani «Nel Tardo Impero il Limes è essenzialmente opera di difesa»! I valli, i fossati, le fortificazioni. Il confine difensivo laddove non ci aveva pensato da sé la natura. Le opere dell’uomo che aiutavano a impedire un’invasione. L’ignoto al di là della linea si è fatto aggressivo. L’impero non riesce più a espandere i suoi confini e quindi si richiude in sé. Si difende dall’ignoto invece di andarlo a conquistare. Come diceva Nanni Moretti in un suo famoso film: “..le parole sono importanti!”. Ora vorrei fare una cosa che non faccio mai. Fare un taglia e cuci dal comunicato stampa della Biennale. Lo voglio fare perché citare le parole esatte del Presidente Paolo Baratta sul concetto di Limes è cruciale per comprendere qualcosa di più sul pericolo insito nelle parole, le quali alla fine fanno il comodo loro e scoprono la fallacia del nostro pensiero: «Il Festival ha avuto come primo tema di ricerca [...] Limes, ovvero le musiche nate nel recente passato nei luoghi dove la musica contemporanea “classica” ha incontrato volontà di rappresentazioni tradizionali e originali di artisti, comunità e paesi (da Israele ai Paesi Baschi agli Stati Uniti) e gli sviluppi diversi che ne sono sorti». Il grassetto è mio. Ecco. Adesso tutto torna. Nonostante i giovani compositori, le opere commissionate, il livello ottimo di interpreti, orchestre, coreografi, compositori, ci troviamo in posizione di difesa. :«la musica contemporanea “classica” ha incontrato volontà di rappresentazioni tradizionali». Tutto quello che ci si poteva aspettare dalla musica contemporanea di concezione classica si è manifestato. Nessuna sorpresa, nessuna incursione in territori sconosciuti, nessuna campagna di invasione all’orizzonte. Solo la perfezione del già addomesticato, mascherata, come d’uso a Venezia, da un’operazione di ringiovanimento renziano degli ospiti (non del pubblico, purtroppo, nonostante il tentativo di portare gli studenti delle scuole (pubblico coatto a presiedere alla rappresentazione tediosa del già visto e già sentito). Territorio protetto e ben difeso. Di già mappato, frequentato, esplorato. Comodo come una vecchia pantofola. Certo qualche piccola curiosità, qualche esotismo ma nel novero del dejà vu Un pizzico di peperoncino per dar corpo al sapore. Un po’ come quando si va al rettilario e il cobra, per quanto letale, è al di là del vetro. Incapace di nuocere nonostante il veleno mortale. Se la Biennale è nata come opera di conquista verso i territori ignoti dell’arte contemporanea ora è il vallo di Adriano della tradizione nella sua forma eccelsa. Limes appunto. Ciò che si è visto e ascoltato alla Biennale suonava un po’ come la poesia di Rutilio Namaziano: suprema nostalgia d’un glorioso tempo che fu. Esempio eccelso il progetto Indigene coreografato da Virgilio Sieni. Un maestro della danza non c’è dubbio. A suo tempo un conquistatore. Affiancato da un giovane compositore neanche 40enne (all’estero questa mia affermazione suonerebbe come una volgare bestemmia, perché un uomo di 35 anni è prima di tutto un uomo fatto e non una giovane promessa!), un orchestra forse ancora più giovane e quattro danzatrici di 14 anni. Risultato: un’opera di gran gusto, formalmente perfetta, piena di grazia ma... assolutamente non necessaria. Come diceva Artaud: «Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame. La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame». Il mondo è in fiamme. Civiltà si scontrano. Le crepe che minano la solidità dell’Occidente si fanno sempre più profonde. Il mondo è andato avanti. L’oggetto artistico in sé compiuto sta svanendo. Immagini terribili di una forza dirompente appaiono ogni giorno su Youtube (e non mi riferisco solo al macello dei degourgements). All’arte si richiede altro. Di riscoprire la sua funzione originaria. Al posto dell’oggetto pericolosi processi in cui il pubblico torna a essere agorà, società riunita per affrontare un problema che l’affligge. Eccezioni in questo senso, seppur pallide, volte sulla direttrice dell’urgenza, due opere Mancanza – Inferno, opera filmica di Stefano Odoardi e Kater i rades di Salvatore Tramacere, con la musica di Admir Shkurtaj opere che tratteremo in recensioni dedicate. Certo attualmente questi percorsi intravisti sono ancora minoritari. Per lo meno nel nostro paese gravemente affetto da senescenza cronica. Piccole incursioni barbare nei territori, per ora, ben difesi dalle forze dell’impero. Quanto basta a segnalare un fenomeno, una pericolosa tendenza a sfondare i confini lungo strade per ora appena percettibili. Presto i barbari arriveranno in forza. E come la storia insegna, nessun muro regge all’impatto. Le difese non reggono. Conviene avventurarsi. Non c’è nulla da perdere. Enrico Pastore
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