Ah,
quello scuotere della terra! Poco più di un brivido della crosta, eppur così
devastante. Quel che resta è una mancanza.
Questo hanno sperimentato gli aquilani dopo il 6 aprile 2009. Mancanza degli estinti, mancanza delle cose (ormai in pezzi o in bilico), mancanza delle istituzioni, che dopo vane quanto magniloquenti promesse, hanno abbandonato i sopravvissuti nelle macerie. Ma la mancanza più evidente è quella di una sostanza che sostenga l’illusione della civiltà. Ciò che resta ricorda la compiutezza e l’efficienza di un passato che non c’è più, La distruzione non è solo fisica. Anche le anime sono andate in pezzi in quell’immane scuotimento. I sopravvissuti, - i dannati -, si aggirano senza meta, si siedono tra le rovine. Lo sguardo a terra, non più lanciato avanti a sé perché non vedono più un futuro. Guardano la terra che li ha condannati in questo inferno di rovine. E tra essi un angelo (poco importa che reciti Rilke, la qualcosa è fin fastidiosa, nel suo essere nient’altro che vuota citazione) un angelo che nel suo far niente non fa che certificare un crollo e una devastazione. Rumore di passi sulle rovine di un mondo che fu: “Come fai a raccontare che non c’è più bellezza?” si chiede un dannato: “quando l’unica cosa che hai è un’assenza?”. Questa è una domanda che si dovrebbero porre tutti, non solo i sopravvissuto al terremoto dell’Aquila. Questa è una domanda necessaria, laddove l’Occidente muore e niente si intravede all’orizzonte; e quindi perché parlare e raccontare di bellezza, quando si rivela presente, ogni giorno di più, solamente un’assenza lancinante e preoccupante? La civiltà, quando appare solida nella sua potenza sfolgorante, non si chiede mai come faccia a sussistere. Non si pone dubbi sulla sua solidità. Eppoi, pochi secondi, ed ecco che tutto ciò che era rimasto nascosto da un velo sottile, improvvisamente si rivela. E tutto finisce, in un attimo. Quando una civiltà collassa, quel che resta è un’assenza di senso. Tutto ciò su cui ci siamo appoggiati improvvisamente viene a mancare restituendoci, in un istante, alla fragilità della vita che consciamente abbiamo dimenticato, creduli in un’allucinazione di potenza. Un castello di carte che crolla al primo fiato di vento e ci lascia mancanti, dannati tra le rovine di un mondo che non è più. Ecco il merito di questo filmato. Il ricordarci che il cielo può cascarci in testa da un momento all’altro. Nel rendere evidente quell’esser frale. Quando una civiltà sparisce e un’altra ancor non appare, l’assenza regna sovrana e lascia attoniti, catatonici, senza nuovi punti di riferimento. Al finire di una rappresentazione un’altra ancor non incomincia e il pubblico s’aggira tra le rovine del teatro vedendo la grandezza che fu, incapace di intravederne un’altra all’orizzonte. Enrico Pastore
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