Ho visto questo spettacolo nell’ambito del festival La Piattaforma Teatrocoreografico, festival che ha ormai dieci anni di vita e che ha gentilmente invitato la nostra rivista a seguirne i lavori e le performance.
Due uomini sono seduti al tavolo. Bevono. Fumano. Davanti a una televisione che passa un balletto classico di repertorio. Potrebbe essere Il lago dei cigni o Giselle. Uno racconta all’altro, in un dialogo un po’ assurdo, alla Ionesco, di un episodio fecale, durante una prova con Micha (Baryshnicov?) e la Cavani. Il ballerino si caca addosso perché non ha il coraggio di interrompere la prova per chiedere di andare al bagno. E a me viene in mente Carmelo Bene quando dice che mai l’eroe è colto nel momento in cui al cesso si libera. Par che l’eroe non cachi mai. Eppur anche in una prova con Baryshnicov... In questa storiella divertente vi è già un segnale, un leggero seppur ironico scivolamento verso il degrado. Una sorta di bug che indica un percorso verso il fondo, “fino all’immondizia” come avrebbe detto Beckett. E poi i due sul palco continuano a parlottare, scimmiottano il balletto che vedono, doppiandolo con battute volgari: la grazia, ormai polverosa, della classicità è come corrosa dal suo doppio in scena. Così l’inizio, ma come dice il titolo, ciò si trasforma in un basso ostinato, in un refrein continuo, ora animato da un terzo danzatore, che viene ripetuto scorticandolo, facendolo a pezzi, vomitandolo (letteralmente il copione viene mangiato e espulso). I gesti si fanno grevi, malfermi, i danzatori strisciano e cadono, si trascinano fuori scena, rientrano. Si scivola verso il basso, giù, “fino all’immondizia”. E poi le bevande con cui ossessivamente si brinda, diventano nere. La scena bianca viene listata a lutto come un bigliettino di condoglianze, e così il tavolo, e le sedie. E a questo punto, strisciando e cadendo, si sarebbe giunti a una conclusione. Eppur non è così. Laddove lo spettacolo avrebbe dovuto finire, si esagera, si ritorna sul concetto e non contenti, l’ultima musica che accompagna la danza dice, a ribadir il concetto, che in fondo tutti dobbiamo morire. Kandinskij diceva che in arte molto spesso 1+1 non fa due ma 0. Questo finale ribattuto, troppo ostinato, rovina uno spettacolo che in fondo era, fino a quel punto, gradevolmente inquietante. Gli attori/danzatori molto bravi, perfetti nel mantenere un ritmo non facile in uno spettacolo ordito, fino al finale, con sapiente perizia con nulla. Eppure... Uno spettacolo che parla di morte e di disfacimento seppur divertente, dovrebbe agghiacciare. Come diceva Kantor in fondo a teatro si parla solo di morte. Eppure questo argomento, più di tutti inquietante per la vita dell’uomo, non riesce a essere veramente pregnante. Ma forse a morir non è l’uomo, ma l’arte come oggetto. Sempre più inefficace, sempre più vano e vacuo corredo al quotidiano. Quell’andar a frequentar luoghi di cultura, per apparire, per darsi un contegno da uomini civili. E questa inefficacia è già da tempo che si riscontra, dopo tutto quel parlare di decostruzione, di uscir dalla rappresentazione, di andare al di là del giudizio. È un po’ come rifar la tragedia nelle rovine dei teatri antichi. Una cosa nostalgica e priva di efficacia, perché manca la funzione che da va il nerbo. Abbiamo distrutto e ora danziamo sulle rovine. Ma come diceva il padre Ubu: “non avremo distrutto tutto se non abbatteremo anche le rovine”. È necessaria una nuova riformulazione delle funzioni della scena sia essa danza teatro performance. L’agire in pubblico deve praticare nuovi processi, nuovi luoghi e nuove funzioni. E questo perché il mondo delle immagini non è più frequentabile. La realtà ormai ha superato la fantasia: aerei che si schiantano su grattaceli, guerre civili minuto per minuto, barbari degourgement settimanali. E poi il dilagare dell’estetica. L’arte non può più essere immagine e oggetto deve, come diceva Cage già più di sessant’anni fa, divenire processo, un processo filosofico di rimessa in questione della realtà, processo che deve essere condiviso dalla società/pubblico al fine di riformulare una nuova realtà. Perché se si rsta nel dominio dell’estetico e dell’immagine ciò che si fa appare come depotenziato. La realtà è più potente. E questa potenza va capita, indagata, messe in questione. Occorre riflettere sulle funzioni perché il modo con cui si è fatto teatro e arte fino a ieri è improvvisamente diventato obsoleto. Diffusione dell’estetica, diffusione dell’immagine. Non su questo terreno si gioca la partita, ma sul processo che deve essere radicalmente diverso. E forse dare uno sguardo all’origine, laddove teatro, sacrificio e morte si incontravano davanti a una società scossa dalle proprie incertezze, dove Teatro era Teatron, il luogo da cui si guarda il mondo, le cose e se ne costruiva e scopriva l’essenza, dove velando si svelava. Riscoprire la funzione e non lamentarsi che la cultura è negletta, perché forse è abbandonata in quanto non più efficace. E così, nel convegno Radici & Germogli che accompagna le performance nel festival si parla del modo in cui artisti di oggi, seguendo i passi di quelli di ieri, fanno danza d’arte o di comunità. Ma si manca clamorosamente alla domanda principale, benchè più volte il prof. Pontremoli con funzione di moderatore, ha cercato di spingere gli interlocutori sui binari giusti. Non si parla del perché far ciò, di che funzione questo dovrebbe avere nella società. Oggi i convegni andrebbero rimodulati non su discorsi futilmente storicistici, né come fossero occasione per scambiar due parole tra colleghi che urbanamente si lasciano parlare. Bisognerebbe che si trasformassero in arene, dove incendiari del pensiero si scontrano, sputando nuove idee come scintille che dilaghino in un rogo. Ma così non è. Si parlotta, si discute con salottiera educazione, si lanciano alla platea pillole di saggezza. C’è bisogno d’altro in un mondo che va in pezzi, di azioni forti, di necessarie rivoluzioni. Bisogna avere coraggio per non seguire l’ovvio, ciò che ci si aspetta. Bisogna scuotere, essere terremoto, buttar giù le rovine e cominciare a ricostruire un modo nuovo di far scena. Enrico Pastore
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