Quello che veramente mi attraeva del programma della Biennale Musica di quest’anno era la prima esecuzione assoluta di Katër i Radës. Il naufragio.
Kater i rades mi pareva interessante per due ragioni: la prima era che presenta alla società/pubblico un problema immane. Racconta una delle tanti stragi del mare, quella dell’affondamento da parte di una corvetta della marina italiana della motovedetta Kater i rades carica di profughi in fuga dall’Albania nel 1997. Ecco - pensavo -, qualcosa che va nella direzione del confronto con il reale, finalmente un’opera che prova a riassumere le funzioni originarie della scena, diventa luogo in cui la società/pubblico affronta, volente o nolente, una vena oscura che la attraversa. Vedendola mi sono accorto che, oltre a questo, in più aveva il pregio di non dare giudizi sulla questione. Alla fine, dopo l’affondamento, non ci sono giudizi, prese di posizioni, dita puntate sui presunti colpevoli. Restano solo i morti sulla scena. Coperti di bianco, che vengono ripescati dal mare, senza più vita, né nazione, né status sociale. Solo cadaveri. E ogni giorno il Mediterraneo diventa sempre più un cimitero d’acqua, in cui inarrestabile si consuma sia l’esodo che il computo dei morti. Non importa cosa cercano questi disperati e non importa quali posizioni politiche ognuno abbia sulla questione. Importa che succeda. Che migliaia di persone, ogni giorno, scompaiano tra le onde, che i sopravvissuti giungano sulle coste di un continente che hanno cercato a prezzo di immani sacrifici, pensando di riuscire a fuggire la povertà, la guerra, i problemi che li assillavano nel loro paese di partenza. Importa che succeda e importa l’inaccettabile indifferenza verso questo fenomeno, importa l’inefficienza di un’Europa che è un fallimento, perché anziché puntare a una coesione culturale e sociale, ha pensato solo ed esclusivamente all’economia del danaro. E così di fronte a ogni crisi emergenziale resta impotente, non sapendo che pesci prendere, lasciando soli i disperati e il paese che subisce questa disperata invasione. È successo per Sarajevo, è successo ai tempi dei profughi albanesi, succede per i morti nel Mediterraneo. Quindi lode a progetti di questo genere che hanno il merito di mettere in questione il problema. Che offrono al pubblico una realtà trasfigurata in mito su cui possono meditare e affrontare il problema in cuor loro e che, nella peggiore delle ipotesi, se non altro sollevano il vaso e fanno intravedere i vermi che s’agitano sotto la coltre del benessere civile. La scena è una zattera, unico nucleo su cui si concentrano le energie dei protagonisti, tese all’attraversamento, il passaggio da una parte all’altra dello stretto. Qui il viaggio perde i connotati di una vicenda di cronaca e assume quelli di un viaggio mitico, da uno stato verso un altro stato, passaggio in cui si gioca tutto, vita e morte. La zattera non è che il nucleo su cui si scatena la tempesta del fato, l’ara sacrificale su cui si consuma un sacrificio evitabile, che sussiste solo per l’inadeguatezza degli uomini e della legge degli uomini. Non vi sono dei ad assistere a questo naufragio. Non come per Ulisse, naufrago primigenio, reduce di guerra in cerca di una casa, sempre attorniato da dei, amici e nemici. Qui gli dei sono assenti. Si volgono dall’altra parte. Inesorabili non sono le Moire, inesorabile è l’uomo nella sua inadeguata risposta agli eventi. Gli uomini sono il motore e gli attori della tragedia che si consuma benché evitabile. Poi c’è un’altra ragione per cui ho voluto vedere Kater i rades. É che da sempre ritengo il teatro musicale una delle possibili frontiere su cui l’arte scenica potrebbe affrontare una fruttuosa e necessaria ricerca sulla funzione del proprio linguaggio. L’opera teatral/musicale ha il merito di distanziare, tramite la musica, la materia infuocata del racconto, senza allontanare l’emozione, bensì alimentandola. E questo allontanamento permette una sufficiente distanza dalla realtà tale da permettere uno sguardo più limpido, più critico. Non c’è la credulità e la fascinazione del linguaggio, perché il canto è extraquotidiano. Cantare è un po’ danzare, una cosa altra dalla quotidianità. Ci pone su un altro terreno, su un altro piano in cui i fenomeni della realtà assumono un’altra consistenza. Ecco perché i grandi teatri tradizionali a partire dal teatro greco, sono canto, danza, scena. Perché gli dei appaiono in un’altra dimensione, parlano un’altra lingua. Dunque ritengo che una seria ricerca sul linguaggio del teatro musicale sia quanto mai necessaria, in un periodo in cui l’arte scenica non si riesce ad appropriare di una reale funzione nella società. Però la sperimentazione in questo campo risulta difficilissima perché i modelli produttivi, sono di fatto, quasi i medesimi del tempo di Verdi. Per quanto la musica diventi ardita (nel caso specifico la musica di Admir Shkurtaj è decisamente avvincente, dirompente tanto da commuovere, nel suo melange di tradizionale, di folklorico ed elettronica), per quanto la regia sia rivoluzionaria (in questo caso semplice e lineare, evocativa con il poco, di francescana maniera) il linguaggio resta vetusto perché le strutture produttive non cambiano. Bisognerebbe che i teatri e le istituzioni preposte alla produzione di teatro musicale, garantissero anche possibilità di sperimentazione in questo senso. Soprattutto dopo che il Novecento ha visto l’apparire di due colossi quali Cage e Kagel i quali hanno indicato alcune possibili strade che bypassano la consuetudine produttiva. Invece ci si ancora alla tradizione, ci si preoccupa degli abbonati, delle reazioni del pubblico di fronte all’insolito e nessuno si osa di cambiare strada. Il risultato è che spesso si cade nel consueto. Nonostante i meriti della regia, della composizione, di ogni interprete sulla scena, si resta in un dominio impolverato, consueto, fenomeno questo che smorza la possibilità d’essere veramente efficace. Ci sono grandi spazi di innovazione, bisogna avere il coraggio di affrontarli. Bisogna avere il coraggio di cambiare il pensiero. E non solo da parte degli artisti, ma soprattutto da parte delle istituzioni. E in questo momento di crisi sarebbe ancora più auspicabile, magari creando dei contenitori nei grandi teatri d’opera dove i giovani possano sperimentare nuove strade e cercare un nuovo pubblico, perché, cari i miei direttori artistici, prima o poi gli abbonati muoiono. Enrico Pastore
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