Daniel Hellmann è un artista non facilmente inquadrabile. La parola performer è abbastanza vaga, non descrive veramente l’ampiezza degli interessi. Nasce come cantante d’opera ma come artista ama sconfinare. Il progetto 3art3 creato insieme alla coreografa vietnamita Quan Bui Ngoc mescola le arti e i linguaggi (teatro, musica, danza) ed esplora le possibilità di interazione tra di essi. Al Performa festival ha presentato un progetto di performance interattiva per un solo spettatore in cui si offre, dietro adeguato compenso la cui entità è frutto di una serrata contrattazione, di soddisfare qualsiasi desiderio.
Desiderio e realizzazione del desiderio in un contesto di mercato e mercificazione, In un certo senso siamo nello stesso piano di Ivo Dimchev, ma come un negativo rispetto al positivo fotografico. Ivo Dimchev nasconde dietro una patina frivola un rito attraverso cui si accumulano tensioni, desideri, voyerismo, scoperta di sé, in un contesto di mercato. Il tutto avviene davanti e nel pubblico. Si viene pagati per fare qualcosa ma anche per inserire dei contenuti in una cornice. La macchina del desiderio che si instaura si manifesta su un piano più mitico, travolgente e inquietante. La società indaga se stessa e se giudizio viene emesso è giudizio che la società/pubblico esprime su se stessa autrice dei contenuti messi in scena. La dimensione di Hellmann è più intima e privata. È come mettersi di fronte a uno specchio in cui si vede se stessi. Come in un confessionale ciò che avviene rimane nascosto. Questo è il limite della performance. L’esclusione di un vero pubblico. Tutto il dramma del desiderio si svolge borghesemente dietro le cortine della tenda e non all’interno della società/pubblico e senza le tensioni che questo comporta. La performance è avvenuta all’aperto, a Lugano, a Bellinzona e a Losone. Pubblica era l’offerta dei servizi, pubblica la contrattazione e questo ha procurato qualche noia con la polizia svizzera in quanto ha assimilato la performance a una forma di prostituzione. Privato lo spettacolo dell’attuazione del desiderio. Un po’ come se si nascondesse dietro un velo il culmine del dramma, depotenziandolo. Attraverso questa breve chiacchierata ho cercato di sondare un po’ più a fondo le intenzioni dell’autore: EP: Come è nato Full Service? DH: L’idea di Full Service mi è venuta lavorando a un’altra performance, da solo, più classica, che si svolge in teatro e ha per oggetto la prostituzione maschile. Parlando con il direttore del teatro ho detto che mi sarebbe piaciuto lavorare in una situazione più sperimentale con un progetto in cui io mi mettevo al servizio del pubblico assolvendo i loro desideri dopo aver raggiunto un accordo economico. Lui si è dimostrato entusiasta e così con la mia drammaturga e la mia scenografa abbiamo ideato questa tenda viaggiante davanti alla quale io mi metto al servizio dei passanti. Mi interessava lavorare su due concetti: uno è che volevo mettere il pubblico (la performance Full service è per uno spettatore alla volta ndr.) a confronto con i propri desideri, e a confronto con una persona disposta a esaudirli; l’altro aspetto riguarda il nostro vivere immersi in una società di mercato e come questo alteri i nostri rapporti sociali, che sono tutti vissuti, compresi quelli più intimi, nelle forme stabilite dalla società di mercato. EP: Il tuo è dunque un lavoro sul desiderio, e la tensione esistente tra esso e la sua realizzazione in un contesto di economia di mercato? DH: Sì, sicuramente la nozione di desiderio è per me molto importante. Lavorando a questo progetto ho riscontrato che c’è una certa difficoltà a confrontarsi con il propri desideri. Quando chiedi alla gente cosa desidera, in un primo tempo, o dicono che hanno già tutto oppure chiedono soldi o un lavoro. Scavando un poco, insistendo un poco si riesce ad arrivare a qualcosa di più intimo ma è molto difficile soprattutto in una situazione come questa che non è per il pubblico pianificata in partenza. Mi interessa molto anche il rapporto di potere che il desiderio instaura e il ruolo che giocano i soldi in tutto questo. Chi ha il controllo? La persona che mi paga o io che vengo pagato? EP: Dietro l’espressione di un desiderio si nasconde il pericolo della frustrazione. Si vuole che il proprio desiderio sia soddisfatto, si accumula una tensione che mira alla soddisfazione, e questa tensione ci porta spesso alla delusione perché ciò che desideriamo è sempre inferiore alle attese. Full service riesce a veramente a trasformarsi in una macchina per la soddisfazione dei desideri? DH: Bisogna dire una cosa. La gente quando chiede che venga soddisfatto un desiderio si esprime sempre in maniera generica. Io cerco di parlare, di chiedere, di indagare, insomma di comunicare per comprendere. Spesso questo non avviene. La gente desidera ma non comunica veramente e quindi nasce l’insoddisfazione. Il mio è anche un lavoro sul linguaggio del desiderio. EP: Devo dirti onestamente che quando avevo letto del tuo progetto pensavo che tutto questo, l’offerta dei servizi, la contrattazione, la realizzazione del desiderio, avvenisse davanti a un pubblico, invece Full Service è una performance per un solo spettatore. Non hai pensato mai a una situazione più pubblica in cui le dinamiche del desiderio e della mercificazione del desiderio si sommano alla tensione che si scatenano in chi semplicemente osserva? DH: In verità io ho voluto cercare una situazione al massimo flessibile. Posso per esempio pensare di realizzare Full service con più performer, oppure in un semplice mercato senza l’ombrello protettivo delle istituzioni culturali, così vicino alle bancarelle della frutta e della verdura c’è anche Full service. Insomma tutto questo per dire che non escludo questa possibilità. Forse ci sarà in futuro. Non so. Enrico Pastore
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