Un viaggio. In macchina. Nessuna narrazione, solo il viaggio e il paesaggio. La cornice è sufficientemente ampia per contenere ogni avvenimento, previsto e imprevisto. La città o, meglio, il paesaggio urbano, è la scena. Lo spettatore, unico, ha la possibilità di redimere il suo sguardo dall’indifferenza che grava sulla sua quotidiana osservazione della scena. Gli avvenimenti, le immagini si susseguono: statiche e dinamiche ma cosa è voluto? Non importa, la domanda è oziosa: tutto rientra nella cornice purché lo sguardo sia pronto a coglierlo, osservarlo. Lo sguardo è il vero protagonista. L’osservatore modifica la realtà e ne è modificato. L’intreccio è avvincente:delicati interventi, frammenti d’azione che attivano il paesaggio, piccoli tocchi che costringono lo sguardo a osservare tutto, anche l’imprevisto che grazie alla cornice è come nobilitato: la signora che esce col cane con quello strano foulard in testa l’avrei osservata lo stesso? E il ragazzo che corre? La roulotte posteggiata male? Qualcosa è avvenuto durante il percorso: il paesaggio urbano è mutato, o forse sono i nostri occhi? Entrambi forse.
Questo giovane collettivo milanese, il Gruppo Strasse, composto da Francesca De Isabella e Sara Leghissa, ha ideato una piéce decisamente intelligente, un intervento urbano radicale seppur delicato, pieno di grazia, non dimentico delle regole di una severa composizione (la partitura di tempi e incontri è molto serrata, inoltre la colonna sonora alternata a silenzi evocativi arricchisce la visione). Sono sempre stato un po’ scettico sulle operazioni performative per uno spettatore per lo più site specific, ma in questo caso devo ricredermi in quanto l’azione di allargare la scena a tutta una città, la proposizione di un viaggio di esplorazione del consueto così insolitamente esperito rende le scelte operate assolutamente giustificate. Lo spettatore non è forzato, non è passivo, è semplicemente condotto per mano a una scoperta della realtà: a lui la scelta se approfittarne, vedere o non vedere, fare o meno il proprio montaggio delle immagini raccolte da questa stana camera car. L’intervista che segue è avvenuta venerdì 3 ottobre a Locarno durante il Performa Festival (Per brevità si è scelto di abbreviare i nomi alle sole iniziali) EP: Qual’è stata la vostra intenzione nel concepire una performance come Drive in? SL: L’intenzione era quella di fare un video. Abbiamo montato una videocamera sull’auto e abbiamo cominciato a girare per le strade facendo delle azioni fuori dalla macchina e usando la vettura come strumento per inquadrare. Il passaggio successivo è stato togliere la camera e mettere uno spettatore continuando quindi a usare la macchina come una camera car però avendo anche la relazione con lo spettatore. Drive in quindi è una sorta di sintesi tra il linguaggio cinematografico e quello del teatro, con un rapporto quindi tra chi guarda e chi agisce. Drive in è diventato quindi un viaggio in macchina dentro la città della durata di circa mezz’ora. C’è un autista, uno spettatore, una macchina che inquadra ed è in movimento, che da un ritmo al lavoro, che usa le luci e le musiche per modificare la temperatura del lavoro e poi delle azioni che avvengono al di fuori della macchina agite da performer che lavorano con noi, azioni che si svolgono in maniera molto sottile, che ogni tanto appaiono e fanno delle piccole azioni. FDI: Le cose che succedono, gli avvenimenti sono situazioni che abbiamo incontrato durante la lavorazione, oppure sono azioni legate al quotidiano. Niente di eclatante quindi. Niente che vada a sconvolgere il paesaggio urbano. A Losone (paese della Svizzera italiana nei pressi di Ascona dove durante il Performa Festival è avvenuta la performance ndr.) in verità le cose sono state un po’ diverse perché abbiamo inserito anche delle azioni che si discostano dalla quotidianità in maniera un po’ più marcata del solito. Questo forse è dovuto al fatto che a Losone abbiamo lavorato in un contesto praticamente vuoto, nel senso che quando iniziavamo la performance non c’era già più gente per strada, a parte i primi giri dove magari incontravamo qualcuno che portava a passeggio il cane. Abbiamo lavorato su contesto vuoto contrariamente ai paesaggi urbani cittadini dove gli interventi si mischiano di più con quanto avviene nelle strade. EP: Drive in possiamo quindi dire che è un tentativo di commistione di linguaggio tra cinema e teatro? FDI: Sì esatto. E questo rispecchia la nostra formazione nel senso che Sara viene dal teatro e ha lavorato con la Compagnia Valdoca, mentre io ho studiato cinema. Di fatto Drive In per lo spettatore è come se stesse girando un film, dietro una macchina da presa. La macchina diventa una sorta di regia mobile. C’è il suono, il movimento, le luci. Una commistione tra le due arti, una ricerca di un linguaggio che metta insieme queste due arti. EP: La strada, la città si può dire che sia il vostro teatro? SL: Il tutto nasce dalla necessità di mettere e metterci in relazione, di agire delle cose con delle persone. Queste azioni diventano un prodotto artistico ma il nostro bisogno nasce da un intento anche politico, di voler trovare un modo per incontrare le persone, metterci in relazione, in comunicazione. Questo nasce per strada, non nasce dentro un teatro, dentro alla scatola del cinema. La città quindi è uno strumento di incontro. Non assume una valenza di potenza architettonica o paesaggistica, anche se ovviamente, entra nel lavoro in maniera molto forte. La città, o il paesaggio urbano, non è il punto di partenza ma, lavorando in strada, è solo il luogo in cui accadono le cose. FDI: Si parte dal bisogno di restare in un luogo che attraversiamo quotidianamente. Il nostro è il tentativo di costruire uno sguardo diverso da quello che abbiamo tutti i giorni, un po’ indifferente, magari a causa della fretta. Questo modo di lavorare per strada ci permette anche di essere molto vicini e attinenti a quello che veramente accade nella realtà e che non si modifica con il nostro passaggio. EP: C’è una commistione tra evento casuale e evento previsto? C’è possibilità di interazione tra le due categorie di eventi? SL: Sì certo. Noi siamo molto aperte da questo punto di vista. Gli eventi casuali entrano e modificano molto spesso il lavoro. EP: Ne modificano anche la durata? SL: Dentro a un meccanismo in cui gli eventi e le azioni si ripetono con una cadenza prestabilita c’è sempre una mediazione tra quello incontri e non è previsto e quello che hai deciso che deve essere. Tutto deve rientrare un po’ in quella griglia, però dentro a questa decisione c’è un’apertura che rende possibile l’ingresso di ciò che accade casualmente. FDI: Molte delle azioni che decidiamo di fare durante il lavoro nascono molto spesso da un incontro casuale durante i sopralluoghi. Dall’esperienza casuale che facciamo nella conoscenza dello spazio in cui andremo a lavorare, Per esempio qui a Losone, entrando in una stradina, abbiamo incontrato un anziano che saliva con una bicicletta molto, molto lentamente e questa ci è parsa subito un’immagine molto forte che è entrata a far parte del lavoro. Quest’incontro ci ha aperto a una possibilità di lavorare su quell’immagine. EP: Avete uno spazio a Milano dove lavorare? SL: No. Attualmente no. Anche se ogni tanto siamo ospitati al Macao, lo spazio per le arti occupato, che non è proprio una residenza teatrale. È più un luogo dove magari facciamo dei laboratori o usiamo quando lavoriamo al chiuso, ma per lo più lavoriamo in strada. FDI: Sì siamo ospitati da Macao che però, bisogna dirlo, non è un teatro ma un luogo continuamente attraversato da chi lo vive. È una sorta di via di mezzo tra la strada e un luogo chiuso. È un ambiente vivo, in movimento. Non è uno spazio chiuso come un cinema o un teatro. Enrico Pastore
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