Milo Rau è nato a Berna nel 1977 ed è uno degli esponenti più rappresentativi di quello che è chiamato teatro documentario o Theatre du reel. Tra i suoi lavori che sono stati presentati nei più prestigiosi teatri e festival teatrali europei ricordiamo: Les derniers jours de Ceausescu, City of Changes che ha creato grande scalpore in Svizzera trattando il tema dell’immigrazione, Hate Radio, il processo di Mosca, Breivik’s Statement, e l’ultimo suo lavoro Civil Wars.
Noi l’abbiamo incontrato a Ginevra durante il festival de la Batie dove ci ha concesso questa piccola ma interessante intervista. In Italia verrà per la prima volta il prossimo 19 e 20 settembre a Terni. EP: Devo fare una confessione: non ho ancora visto un delle tue istallazioni performative o azioni teatrali, lo vedrò stasera (Hate Radio Giovedì 4 settembre a Ginevra nella Salle des fetes du Lignon nda.) ma c’è qualcosa che mi intriga per come affronta direttamente la realtà contemporanea. Mi piacerebbe quindi comprendere meglio come si sviluppa e nasce il tuo theatre du reél. Ma partiamo dall’inizio: cos’è il theatre du reél? MR: Non credo che il mio sia propriamente Theatre du reél. Il mio teatro ha forti legami con la realtà ma non è Teatro documentario. Il mio non è un teatro che documenta la realtà, che la rappresenta è più il tentativo di fare una rappresentazione che ha una realtà essa stessa. A questo proposito amo molto citare Jean-Luc Godard. Lui non parlava propriamente di teatro ma di realismo e diceva: “Il cinema realista non è quello che rappresenta la realtà ma quello che si occupa della realtà della rappresentazione”, il che vuol dire che ciascun momento sulla scena deve essere reale. Questo è il Theatre du reél. Un teatro che ha un impatto forte come il reale, che è un intrusione forte nella società contemporanea. Alla fine credo sia questo che cerco. EP: Per i Greci antichi Teatron era il luogo da cui si guarda il mondo, potremmo quindi dire che il Theatre du reél è un tentativo di recuperare l’etimo originario? MR: È giusto. Ho sempre pensato al mio lavoro come a una risposta al teatro postmoderno che si interessa a decostruire la realtà e a dire che la rappresentazione è impossibile. Ecco io mi ritengo profondamente conservatore. Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale. Non non tentativo di rappresentare qualche cosa che è assente ma un tentativo di creare un qualcosa di poetico. E cerco di farlo attraverso differenti forme di rappresentazione. Cerco di fare dei processi sulla scena per esempio, un processo della durata di tre giorni (il processo di Mosca nda.) dove c’è una giuria e un verdetto, come nel teatro antico, una giuria che dice alla fine qual’è l’opinione pubblica. Con un finale aperto quindi. D’altra parte cerco anche di trovare un linguaggio che sia un po’ mitico a partire dall’autobiografia degli attori (Civil Wars l’ultimo spettacolo di Milo Rau nda.). Oppure in Hate Radio che è un tentativo di rappresentare una cosa che diviene in qualche modo mitica, ma non alla maniera surrealista, ma in modo molto chiaro, molto puro, molto semplice. È una cosa che quando ho cominciato, e ora sono più di dieci anni, tutti mi dicevano che non si poteva fare. All’inizio del XXI secolo non puoi fare un realismo di questo genere. Devi decostruire mi dicevano e questo è in effetti quello che ho imparato a scuola: a criticare e decostruire. Ma alla fine io credo che a furia di decostruire ci troviamo circondati da rovine e bisogna ricominciare a costruire qualche cosa. Ed è quello che cerco di fare con il mio teatro o nei miei film: di fare un’estetica molto semplice, che si occupa delle questioni fondamentali come la guerra, l’amore, la decisione. Ecco io credo che il teatro antico sia stato un teatro di decisione, dove si prendevano delle decisioni, un teatro di antagonismo. EP: In effetti all’origine dell’Occidente c’è la guerra, il tribunale, pensiamo all’Orestea, e la violenza quella familiare e quella dello stato, della guerra. MR: Sì esatto. La guerra. E la fatalità che introduce nella fatti umani qualche cosa come un ordine. Ecco io cerco di fare un ordine. È questo che cerco di fare. All’origine del teatro c’è il processo ma c’è anche il rito, un rito politico ma non nel senso fascista di oggi con un po’ di luci e di suoni che ci mette di fronte a qualcosa che dobbiamo sognare, ma un rito in piena coscienza un rito razionalista. Ecco cos’è il teatro per me: un rito razionalista. EP: Mi puoi spiegare il concetto di reenactment? Leggendone la definizione mi sembra un’applicazione teatrale del metodo scientifico dove si cerca di riprodurre il laboratorio. Qualcosa che è già avvenuto altrove per scoprirne il funzionamento. Riprodurre un avvenimento staccato dal flusso della storia è un modo per carpire e comprendere la verità nascosta? Qual è l’obbiettivo di un reenactment? MR: Credo che in parte hai già dato una risposta. In un reenactment ci sono tre cose: la prima è la mia risposta all’estetica teatrale, dove c’è un’interdizione alla rappresentazione e al naturalismo che viene da Brecht. È un’idea molto tedesca, una paura del fascismo, una paura di fare un rito sulla scena ed è per questo che il teatro tedesco è così accademico. Ecco io quindi mi sono detto voglio fare il proibito per eccellenza: voglio fare del naturalismo puro che ricostruisca la verità. Allora sono arrivati e mi hanno detto che la verità non esiste, che Derrida ha detto questo e Foucault ha detto quell’altro, ma io ho deciso di farlo lo stesso come se in effetti ci fosse una verità. Questa è stata la mia prima idea. La seconda è che voglio comprendere, per esempio sull’esecuzione di Ceausescu (Les derniers jours de Nicolaj Ceausescu nda), voglio comprendere perché queste immagini che sono così importanti nella nostra società, come le immagini delle decapitazioni in Siria, dov’è la forza di queste immagini, che cosa c’è la dentro, come comunicano queste immagini, come comunicano i media e gli uomini. La terza questione è evidentemente politica: ripetere una situazione che la prima volta è stata fatale, ma che nella seconda è aperta per esempio il processo contro le Pussy Riot (Les proces de Moscou nda.) dove c’era una giuria popolare, l’accusa etc. E quando ho domandato all’avvocato delle Pussy Riot che era l’avvocato anche nel vero processo perché volesse partecipare al mio reenactment e lui mi ha risposto:” Sai perrché? Perchè è la prima volta che faccio quello che faccio in teatro”. In effetti in un vero processo si fa del teatro. Si sa da dove si parte ma non si sa come va a finire. Ed è questo che è sempre frainteso a proposito del reenactment che non è la rappresentazione di una verità storica ma è una riproduzione di una situazione, un situazione aperta. Come ha detto Clausewitz, nel momento in cui inizia la battaglia anche i piani più accurati vanno all’aria. Il teatro è così, e come una campagna militare, si fanno dei piani molto chiari e accurati e quando si comincia con le prove... Io comincio, metto un titolo, scrivo un soggetto, scrivo un copione e poi straccio tutto il primo giorno quando incominciano le prove. È sempre così. EP: Visto il confronto così diretto con la realtà e il realismo, perché il teatro e non il cinema o, meglio, non solo il cinema? MR: Il teatro è sempre un azzardo. E io stesso sono arrivato al teatro per caso. Io sono veramente interessato a scoprire in quale maniera si possa entrare in contatto con il pubblico. E poi bisogna dire che in Germania e nei paesi germanofoni più che in Francia o in Italia, il Teatro è l’arte numero uno. Il cinema tedesco è discutibile, la letteratura tedesca esiste, ma se tu vuoi fare veramente dell’arte, allora fai il teatro. Da noi è così, è qualcosa che è nella società, perché c’è dentro tutto il mondo e tutte le cose. Nel teatro tu hai la possibilità di fare della filosofia, dell’azione politica e il dramma, puoi fare tutto nel medesimo tempo. È per questo che c’è stata così tanta discussione sulle mie piecè, e non credo, o per lo meno non ne sono sicuro, che in un altro paese ci sarebbe stato così tanto dibattito su una piecè teatrale. Quello che amo veramente del teatro è che alla fine di ogni serata tu puoi veramente incontrare il pubblico, parlare con loro, cosa che ad esempio nel cinema non succede a meno che non si presenzi alla premiere. E poi c’è l’incertezza, ogni sera c’è sempre un po’ di terrore. Per esempio Hate Radio è stato rappresentato in quattro anni più di duecento volte eppure a ogni nuova serata non sai mai se tutto andrà bene, se qualcosa nella tecnica può non funzionare, se nel pubblico ci sarà gente a cui non piacerà lo spettacolo. Ecco il teatro è qualcosa che ricomincia tutti i giorni da capo. È terrorizzante ma nello stesso tempo è qualcosa che ti risveglia. Mi piace questo, di confrontarsi tutti giorni con qualcosa di nuovo e differente. Anche se quando hai finito le prove ti sei detto: “ecco è finito”, non è mai finito perché gli attori recitano ogni sera in una maniera differente, tu stesso cambi delle cose nel corso del tempo. È questo che mi piace del teatro. EP: Un’azione artistica o teatrale non è sempre politica anche se non si occupa direttamente, palesemente di politica? Per esempio quando Duchamp crea il suo primo readymade mette in questione la totalità della realtà, era un’azione rivoluzionaria, era un’azione politica senza esserlo in maniera evidente. Lo stesso potremmo dire per il pezzo silenzioso di John Cage: integrare i suoni esclusi nel linguaggio musicale, far sì che ogni suono sia musica era un’azione fortemente politica anche se a essere messo in gioco era soltanto il linguaggio musicale. Perché quindi mettere in discussione la realtà in maniera così frontale? MR: Potrei dirti che queste sono le cose che mi interessano. Per esempio le immagini dell’esecuzione di Ceausescu sono qualcosa che mi ha colpito da bambino in maniera indelebile e che sono tornate vent’anni più tardi. Per il Processo di Mosca ero più che altro interessato a portare un tribunale sulla scena, a fare un processo sulla scena e cercavo qualcosa che scatenasse un antagonismo forte. E questo forse un po’ il senso dell’azione politica così come io la concepisco: quando e se si crea un antagonismo. Sulla scena appaiono due cose che si considerano dalla loro parte entrambe come l’ortodossia. Da una parte e dall’altra, gli ortodossi e i dissidenti. È qualcosa di molto forte nella società russa e che non si possono riunire. Come nelle tragedie greche di cui abbiamo parlato prima. C’era la legge degli uomini e c’era la legge degli dei in perenne antagonismo, due forze che non si potevano conciliare. Due etiche inconciliabili. Come in Antigone c’è lei che vuol fare qualcosa per suo fratello perché vuole obbedire alle leggi degli dei e alle leggi delle emozioni, e c’è però la legge degli uomini che glielo impedisce. Ecco lì c’è un antagonismo che diviene fatale. È questo che mi interessa. Creare delle piecè dove in effetti si scateni un antagonismo fatale. Per esempio in Hate Radio c’è la mondializzazione che è estremamente positiva, c’è un emissione radiofonica estremamente seguita e nello stesso tempo è un genocidio. Un genocidio in sé non è qualcosa che mi interessa perché è soltanto grande assassinio, è follia umana. Così come della musica divertente che ascolti alla radio. Ma quando metti le due cose insieme ecco lì c’è un antagonismo, un qualcosa che non va. È questo che mi interessa. E a ben pensarci in effetti c’è qualcosa dell’orinatoio di Duchamp in questo, dell’antagonismo nella realtà. C’è però da dire che il teatro non è un arte plastica, è un arte vivente e così io cerco l’antagonismo nell’umano. Non so se sia politico, o populista questo cercare a tutti i costi il confronto, ma io credo che quando si crea un antagonismo lì c’è qualcosa che nasce. È questo che mi interessa. Quando ci sono delle persone che non possono mettersi d’accordo lì c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va quando si mette Breivik sulla scena (The Breivik’s statement nda.) ma è questo che mi interessa: quando c’è qualcosa di veramente, profondamente discutibile. Quando si fa di un genocidio uno spettacolo radiofonico questo è qualcosa di assolutamente discutibile. Di fronte a queste cose veramente ci si domanda: “ma perché?”. Enrico Pastore
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