Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
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Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo |
Se i cinema si riempiono grazie a uno dei suoi grandi generi sempre più imperanti, invero, il disaster movie, in teatro lo spettatore non può dire che vi sia una continuità evolutiva di un genere che abbia primeggiato su tutti gli altri e aumentato il proprio audience trattando il medesimo tema: quello della distruzione umana.
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di Francesco Panizzo
“In un teatro dominato dalla parola |
Eppure Amleto, anche se analizzato e trattato in tutti i suoi aspetti tematici principali, ci lascia interdetti se pensiamo alle ultime parole che il principe di Danimarca dice a Orazio e che descrivono la volontà di continuare una razza ormai contaminata: “Oh, muoio, Orazio. Il veleno potente trionfa sulla mia anima. Non posso vivere per sentire le notizie dall’Inghilterra, ma predico che l’elezione cadrà su Fortebraccio. Morendo gli do il mio voto. Allora diglielo, insieme ai fatti, gravi e minori che mi hanno spinto – Il resto è silenzio.”
Dove sta la grande differenza se se ci riferiamo ai due diversi disastri, cinematografico e teatrale? Principalmente risiede nella causa, nella provenienza del pericolo e del danno che provocano il disastro. Nei disaster movie il pericolo viene dall’esterno ed è identificabile con la natura che si ribella o una catastrofe di qualsiasi origine che si abbatte contro una Nazione e, più nello specifico, a danno dell’umanità. Anche nell’originale shakespeariano è l’umanità a soccombere, “c’è del marcio in Danimarca” d’altronde.
Dove sta la grande differenza se se ci riferiamo ai due diversi disastri, cinematografico e teatrale? Principalmente risiede nella causa, nella provenienza del pericolo e del danno che provocano il disastro. Nei disaster movie il pericolo viene dall’esterno ed è identificabile con la natura che si ribella o una catastrofe di qualsiasi origine che si abbatte contro una Nazione e, più nello specifico, a danno dell’umanità. Anche nell’originale shakespeariano è l’umanità a soccombere, “c’è del marcio in Danimarca” d’altronde.
Ma in Amleto l’origine del contenzioso con il reale muove “da un dentro a un altro dentro” come direbbe un famoso genio del teatro. D’altronde se la tecnologia del cinema ha realizzato passi da gigante per imbalsamare ogni immaginario soggettivo, il teatro si trova a dover fare i conti con un deserto più grande di quello dato dalla propria mancanza di sussistenza economica.
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Il pubblico, sempre più spurio innanzi ai palchi legnosi, non solo si è fatto avvelenare dai pixel centrifugati dai “narcisistici” schermi del multisala, ha completamente perso ogni cognizione con il background culturale dal quale proviene. Profano, più che dimentico, della trama della celebre tragedia shakespeariana, limita di gran lunga gli stimoli registici su eventuali attualizzazioni o rifacimenti di un’opera comunque fin troppo riproposta e rivisitata, tra l’altro, dai troppo grandi geni. Allora, per la moltitudine dei mestieranti non resta che l’aspetto ludico, se vogliamo amatoriale, per giustificare la fattura noise da parte della regia (unica economicamente retribuita in fronte agli attori, sregolatamente coperti dalle registrazioni sonore; scelta per nulla radicale), o la tremante esposizione, dimenticanza del testo, imbarazzo sublime che trita ogni congettura intellettuale e apre alla compassione più sentita per una rappresentazione nostalgica delle passate, gloriose gesta del teatro socialmente utile e soggettivamente spirituale, se non addirittura colto nella sua genialità. In vita mia ho visto due Amleto. Il primo, la cui regia era di Peter Brook, lo vidi quando avevo vent’anni e il secondo martedì 21 maggio 2013 al Teatro 13 dove la compagnia dell’Accademia Teatrale di Firenze ha riproposto la tragedia con qualche taglio di scene per una durata di tre ore e mezza di spettacolo. Inutile metterci a far paragoni fra le due esperienze. Allo stesso tempo, però, non posso nascondere il fatto che un’Accademia dovrebbe essere il cuore e l’anima dell’attività di una disciplina, perdipiù, in una città che di m(M)agnifico ha sì un enorme ricordo ma, soprattutto, se ricondotto alla nominazione del gruppo dei vari Rotary Club gigliati, forse unica speranza di poter sostenuti economicamente e vivere forse un mese all’anno con il sudore irrecuperabile dell’antico mestiere dell’attore. Nel complesso, quello del fortunato Pietro Bartolini, è uno spettacolo dove l’aspetto amatoriale resta perno immobile, la questione della passione che muove gli animi e li asserve all’im-perterrito sforzo di continuare un’arte messa all’oscuro dell’innovazione in ogni sua forma. Ne guadagna una patina di tradizione, sfuggevole alla fertilità dell’arte o a quella tipica, spensierata “da canonica” di molta preadolescenza. Ma come farebbe l’utente mediocre dei nuovi media a conoscere l’Amleto se non catapultato in un fittizio mise en abime dei vecchi fasti? Siamo nemmeno al rispettato o riprodotto, anche se anacronistico, ricalco dello stile e dei fatti, cosicché ci sollazziamo con la sua rappresentazione. Una rappresentazione della rappresentazione, in realtà. Un gioco serioso del destino vedere degli attori, che potrebbero dare molto in contesti più onesti, fare della corona di carta di Re Claudio, il simbolo di un potere smarrito, in sottesa rimostranza per una ricerca interiore smarrita, ai nostri tempi chissà, su di un tablet dell’outlet, o nella semplice carenza di spettatori. Quei pochi presenti e che hanno resistito fino alla fine delle tre ore e mezza sull’essere o non essere uno spettatore, rimbalzano gli occhi come davanti a una partita di ping pong, senza chiedersi troppi perché, rispecchiati ancor più nelle rigide voci e nelle posturali movenze degli attori sulla scena. È questo il gioco. Un riflesso di tensioni che solo il teatro può dare e che vale la pena di un più grande disaster movie quotidianamente esperibile nel nostro reale vissuto. Certo, è un peccato dover risarcire lo spettacolo sempre dovendo paragonare il teatro ai limiti che il grande schermo adduce. Allo stesso tempo, però, come non scuotersi in fronte alla metateatralità della situazione e delle parole del Principe di Danimarca ben assestate alla capocomica della compagnia degli attori giunta al Castello di Elsinore, bombardamento acustico alla coscienza del Re:
“Perché qualsiasi cosa così eccessiva è lontana dallo scopo
della recitazione, il cui fine, sia all’inizio che adesso, era ed è di
reggere lo specchio alla natura; di mostrare alla virtù il suo vol- to, al
vizio la sua immagine, alla tempra e
alla fisionomia stesse dell’epoca la loro forma e impronta. Ora, se
questo viene esa- gerato o reso sottotono, si può far ridere gli
incompetenti, ma non si può che infastidire gli esperti; la cui sentenza
nella vostra considerazione deve venire prima d’un tutto esaurito.
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Oh, ci sono attori che ho visto recitare (e ho sentito altri lodarli e con che lodi!), che, senza parlarne in modo profano, non possedendo né l’accento né il portamento di cristiani, di pagani o uomini, zampettavano impettiti e urlavano talmente da farmi pensare che qualche operaio della natura li avesse fatti uomini, e manco bene, tanto abominevole era il modo in cui imitavano l’umanità.”
Ed ecco la fine, il turpe nebulo, figlio della sua età e del suo tempo, l’Amleto tragico non-desiderante mentre manda i suoi ossequi alla piece più ligio che mai, quasi voglia dare l’agnizione più incredibile e più teatrale che mai: il suo senso di responsabilità nei confronti della legge e del risarcimento alla tragedia della sua esistenza. Mentre le tavole del Teatro 13 urlano la loro verità contro i suoni intubati di una sala prepotentemente antiacustica, la voce “panificata” del giovane Amleto, trafitto e morente, ammonisce con le celebri parole: “Il resto è silenzio”.
Ed ecco la fine, il turpe nebulo, figlio della sua età e del suo tempo, l’Amleto tragico non-desiderante mentre manda i suoi ossequi alla piece più ligio che mai, quasi voglia dare l’agnizione più incredibile e più teatrale che mai: il suo senso di responsabilità nei confronti della legge e del risarcimento alla tragedia della sua esistenza. Mentre le tavole del Teatro 13 urlano la loro verità contro i suoni intubati di una sala prepotentemente antiacustica, la voce “panificata” del giovane Amleto, trafitto e morente, ammonisce con le celebri parole: “Il resto è silenzio”.
Amleto
di W. Shakespeare |
Francesco Panizzo
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Accademia Teatrale diFirenze.
Teatro 13, martedì 21 maggio 2013.
Con -
Michele Paoli, Francesco Marri, Cristina Gerli, Alessandro Matteuzzi, Mauro Ghiddi, Giulia Barca, Vittoria Berti, Andrea Vangelisti, Pamela Sagoleo, Chiara Barbieri, Alda Pacini, Claudia Sussi, Riccardo Biffoli, Mario Milite.
Regia di -
Pietro Bartolini.
Sito internet -
http://www.accademia-teatrale.it/IndexFrame-3.htm
Teatro 13, martedì 21 maggio 2013.
Con -
Michele Paoli, Francesco Marri, Cristina Gerli, Alessandro Matteuzzi, Mauro Ghiddi, Giulia Barca, Vittoria Berti, Andrea Vangelisti, Pamela Sagoleo, Chiara Barbieri, Alda Pacini, Claudia Sussi, Riccardo Biffoli, Mario Milite.
Regia di -
Pietro Bartolini.
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