Il dialogo tra filosofia e architettura è sempre stato mantenuto vivo, almeno dal 1700 in poi, al punto che la questione fondamentale concerne il darsi stesso di un rapporto tra due campi della conoscenza apparentemente così lontani tra loro[1].
L’approccio che qui si propone, il progetto, è la relazione tra due discipline che sembrano lontane e inconciliabili, ma che condividono gli stessi interessi per i principi. Si tenta qui di mostrare il legame tra l’architettura e un forma particolare della filosofia, la decostruzione. La decostruzione si presenta non come un metodo, né come una teoria, ma come qualcosa che c’è quando già accade, un evento che irrompe nel normale processo riflessivo e che destabilizza l’intera serie cui può dare vita il pensiero. È per questo motivo che la filosofia, in particolare il punto di vista decostruttivo, va di pari passo con l’architettura, ed anzi inizia con essa: perché se vogliamo decostruire il potere, cioè ogni qualsivoglia forma di dominio, non possiamo che iniziare dai suoi fondamenti, o meglio, dalle sue fondamenta.
L’architettura (dal greco ἀρχειν (árchein), “principiare”, “comandare”, “origine”, “fondazione” o “guida” e da τέκτων (técton), termine che richiama diversi significati, tra i quali “inventare”, “creare”, “plasmare”, “costruire”), ha a che fare con la costruzione di fondamenti, quindi con il fondare! L’architettura è la disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio, in cui concorrono aspetti tecnici e artistici: si tratta di una “scrittura dello spazio”, come afferma Derrida, dell’affermazione di una traccia, di un segno dello e nello spazio che fa (nel senso di “istituire”) storia, storia dell’architettura appunto e che ha bisogno per essere compresa, o anche solo riconosciuta, di un’intrinseca e già da sempre a lavoro dentro i suoi propri margini, decostruzione.
L’approccio che qui si propone, il progetto, è la relazione tra due discipline che sembrano lontane e inconciliabili, ma che condividono gli stessi interessi per i principi. Si tenta qui di mostrare il legame tra l’architettura e un forma particolare della filosofia, la decostruzione. La decostruzione si presenta non come un metodo, né come una teoria, ma come qualcosa che c’è quando già accade, un evento che irrompe nel normale processo riflessivo e che destabilizza l’intera serie cui può dare vita il pensiero. È per questo motivo che la filosofia, in particolare il punto di vista decostruttivo, va di pari passo con l’architettura, ed anzi inizia con essa: perché se vogliamo decostruire il potere, cioè ogni qualsivoglia forma di dominio, non possiamo che iniziare dai suoi fondamenti, o meglio, dalle sue fondamenta.
L’architettura (dal greco ἀρχειν (árchein), “principiare”, “comandare”, “origine”, “fondazione” o “guida” e da τέκτων (técton), termine che richiama diversi significati, tra i quali “inventare”, “creare”, “plasmare”, “costruire”), ha a che fare con la costruzione di fondamenti, quindi con il fondare! L’architettura è la disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio, in cui concorrono aspetti tecnici e artistici: si tratta di una “scrittura dello spazio”, come afferma Derrida, dell’affermazione di una traccia, di un segno dello e nello spazio che fa (nel senso di “istituire”) storia, storia dell’architettura appunto e che ha bisogno per essere compresa, o anche solo riconosciuta, di un’intrinseca e già da sempre a lavoro dentro i suoi propri margini, decostruzione.
Se l’architetto è colui più prossimo al principio, all’arché, allora la sua rappresentazione è quella dominante, e per fuggire da questa logica egemonica dell’architettura è necessario scardinare le strutture portanti della tradizione e cercare di liberarsi da questa subordinazione (per esempio al valore del bello, dell'utile o dell’abitabile).
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Ciò non significa dar vita a forme architettoniche inutili, brutte o inabitabili, ma significa solo voler mettere l'architettura in comunicazione con altre arti, significa “contaminare l'architettura”.
Derrida la chiama “architettura decostruita” (meglio, “in decostruzione”), cioè non strettamente legata ai valori dell’abitare, del conservare e del custodire, ma piuttosto, poiché l’interrogativo sollevato da Derrida, e che ci poniamo anche noi, è se un’architettura decostruttivista è concretamente realizzabile, ma soprattutto se sia possibile definirla ancora architettura (?), un’architettura che ha riabilitato l’aspetto materiale nella costituzione di un’opera d'arte, ma ha soprattutto voluto sottolineare che l’opera non si chiude mai, non esaurisce mai la sua produzione di significati: ogni testo è infatti uno spazio, metaforico o reale, aperto, percorribile da chiunque e in ogni tempo. Non si può abitare uno spazio senza fare esperienza di una certa estraneità! L’artista genera un eterno dispositivo “disseminante” sul quale ha già da sempre perso qualsiasi forma di controllo. Secondo Derrida, Eisenman e Tschumi hanno dato prova che quella decostruttivista è una strada percorribile; anche le loro creazioni sono fatte per essere abitate, per dare riparo, tuttavia, seguendo Derrida, quello che bisogna chiedersi “non è soltanto ciò che costruiscono, ma come noi interpretiamo ciò che essi costruiscono”, ovvero: quali “aperture” scaturiscono dagli spazi che materialmente vengono racchiusi. Se prendiamo ad esempio questo differente modo di fare esperienza dello spazio, si tratta di inventare un’architettura sia fisica sia teorica nuova, senza riferimento alcuno a qualsiasi modello precedentemente dato, nel tentativo di creare modelli architettonici che riescano a rivelare un senso immanente al reale.
Poiché il tentativo di sempre è stato di trovare un principio interiore della costruzione, mutando l’atteggiamento d’interesse dall’essenza alle condizioni, se l’architettura è il discorso sul fondare, allora le fondamenta (i fondamenti) sono continuamente messe alla prova, sono “sfondate” dalle ‘infinite possibilità’, di fronte alla contaminazione che è all’origine, a ciò che è altro, in tutte le forme dell’alterità. Poiché il tentativo di sempre è stato di trovare un principio interiore della costruzione, mutando l’atteggiamento d’interesse dall’essenza alle condizioni, se l’architettura è il discorso sul fondare, allora le fondamenta (i fondamenti) sono continuamente messe alla prova, sono “sfondate” dalle ‘infinite possibilità, di fronte alla contaminazione che è all’origine, a ciò che è altro, in tutte le forme dell’alterità.
Derrida la chiama “architettura decostruita” (meglio, “in decostruzione”), cioè non strettamente legata ai valori dell’abitare, del conservare e del custodire, ma piuttosto, poiché l’interrogativo sollevato da Derrida, e che ci poniamo anche noi, è se un’architettura decostruttivista è concretamente realizzabile, ma soprattutto se sia possibile definirla ancora architettura (?), un’architettura che ha riabilitato l’aspetto materiale nella costituzione di un’opera d'arte, ma ha soprattutto voluto sottolineare che l’opera non si chiude mai, non esaurisce mai la sua produzione di significati: ogni testo è infatti uno spazio, metaforico o reale, aperto, percorribile da chiunque e in ogni tempo. Non si può abitare uno spazio senza fare esperienza di una certa estraneità! L’artista genera un eterno dispositivo “disseminante” sul quale ha già da sempre perso qualsiasi forma di controllo. Secondo Derrida, Eisenman e Tschumi hanno dato prova che quella decostruttivista è una strada percorribile; anche le loro creazioni sono fatte per essere abitate, per dare riparo, tuttavia, seguendo Derrida, quello che bisogna chiedersi “non è soltanto ciò che costruiscono, ma come noi interpretiamo ciò che essi costruiscono”, ovvero: quali “aperture” scaturiscono dagli spazi che materialmente vengono racchiusi. Se prendiamo ad esempio questo differente modo di fare esperienza dello spazio, si tratta di inventare un’architettura sia fisica sia teorica nuova, senza riferimento alcuno a qualsiasi modello precedentemente dato, nel tentativo di creare modelli architettonici che riescano a rivelare un senso immanente al reale.
Poiché il tentativo di sempre è stato di trovare un principio interiore della costruzione, mutando l’atteggiamento d’interesse dall’essenza alle condizioni, se l’architettura è il discorso sul fondare, allora le fondamenta (i fondamenti) sono continuamente messe alla prova, sono “sfondate” dalle ‘infinite possibilità’, di fronte alla contaminazione che è all’origine, a ciò che è altro, in tutte le forme dell’alterità. Poiché il tentativo di sempre è stato di trovare un principio interiore della costruzione, mutando l’atteggiamento d’interesse dall’essenza alle condizioni, se l’architettura è il discorso sul fondare, allora le fondamenta (i fondamenti) sono continuamente messe alla prova, sono “sfondate” dalle ‘infinite possibilità, di fronte alla contaminazione che è all’origine, a ciò che è altro, in tutte le forme dell’alterità.
Se questo modo d’intendere l’architettura la fa somigliare ad un testo, allora la decostruzione è già in opera e con essa una sorta di promessa, di impegno responsabile, per un avvenire che, anche se indeterminato, è messo in gioco dalla struttura, sintassi, forma e funzione dell’idea stessa di progetto che diviene il luogo in cui i fondamenti del pensiero occidentale trovano la loro concreta realizzazione in virtù degli indici molteplici di una “scrittura dello spazio”.
È nel Novecento che assistiamo ad una rivalutazione filosofica dell'architettura, ma ciò non avviene per una sorta di ‘intellettualizzazione’ dell’architettura medesima; man mano, infatti, la filosofia ha avuto il coraggio di smascherare il carattere illusorio di quel riferimento alla coscienza, intesa come origine semplice, che aveva dominato l’intera storia della metafisica. In filosofia infatti si è affermata negli anni ottanta una tendenza progettista meglio nota come decostruttivismo, derivante direttamente dall’impostazione riflessiva di Jacques Derrida.
È nel Novecento che assistiamo ad una rivalutazione filosofica dell'architettura, ma ciò non avviene per una sorta di ‘intellettualizzazione’ dell’architettura medesima; man mano, infatti, la filosofia ha avuto il coraggio di smascherare il carattere illusorio di quel riferimento alla coscienza, intesa come origine semplice, che aveva dominato l’intera storia della metafisica. In filosofia infatti si è affermata negli anni ottanta una tendenza progettista meglio nota come decostruttivismo, derivante direttamente dall’impostazione riflessiva di Jacques Derrida.
[1]
Ci sono numerosi esempi delle affinità che legano architettura e filosofia. Da
ricordare sono almeno due episodi in cui filosofia e architettura sono stati
compagni di avventura: il celebre motto apposto sull’architrave della porta
dell’ccademia platonica di Atene: “Non entri,colui che non è geometra!”; in
Kant l’“Architettonica della Ragion pura”, ovvero l’arte del sistema. In
passato porre l’architettura sullo stesso piano della filosofia sarebbe stato
un oltraggio alla “verità”: ma a quale concezione della verità? Alla verità
intesa come pura forma spirituale, come pura presenza, lontana da qualsiasi
forma di materialità.
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Pietro Camarda
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