_CINEMA TEATRO MUSICA PERFORMING ARTS DANZA LETTERATURA
Witz rubrica diretta da Sara Maddalena
La potenza del tuono Zoge di Marie-Thérèse Sitzia Buio. Persistente e assoluto. Si percepisce con difficoltà la presenza della danzatrice, si intravedono vagamente degli oggetti di forma chiara e indistinta che con lei, attraverso lei, si muovono in fondo alla sala lunga e stretta del Teatroinscatola di Roma. Pian piano, così come nella poetica tarkovskiana, il buio rivela più della luce e diventa essenza autonoma. L’occhio cerca di adattarsi a una situazione difficile: il pubblico è spaventato da ciò che non accade. |
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Il disagio iniziale lascia lentamente spazio alla fiducia, all’immaginazione. Il buio diventa comodo: “è quando
il sole è a picco e inonda le cose che l’uomo può sentirsi fuori posto.
L’eredità delle scelte iniziali gli pare ora insensata. E’ come se
l’istante presente schiacciasse ogni altro valore” (Eugenio Barba). Lo stato di oscurità mette in contatto con se stessi in una condizione indulgente di ascolto interiore. Sentire, prima di vedere, è cosa ardua da imparare, ma regala impressioni uniche. Sensi e intelletto sono in una posizione di attenzione, di concentrazione totale, nel tentativo di decifrare la composizione in un contesto non narrativo.
Il compito è difficile, non si tratta di decodificare, ma di distinguere l’accadimento, nel nero vuoto in cui è immerso. Lo spettatore segue le tracce visuali formulando ipotesi che diano materialità al pensiero, rendendo possibile aggrapparsi a esso. L’interrogativo acquista densità e porta con sé la promessa di una risposta: l’attesa diventa tensione, vettore, direzione.
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Poi, il fremere ondulatorio di quelle indistinte entità lascia spazio alla luce, e al corpo di donna, coperto da una veste color avorio. Disteso, orizzontale. Protagonista dello spettacolo “Zoge (Avorio)” della durata di circa 30 minuti, messo in scena il 22 novembre a Roma, è Marie-Thérèse Sitzia, danzatrice contemporanea di cui è evidente l’esperienza di danza butōh.
Con piccoli movimenti di torsione e opposizione l’artista percorre un tragitto, sino a ritrovare la verticalità, a scuotersi e sciogliersi – in modo quasi primitivo e istintuale – nell’estensione conquistata, fino a precipitare nuovamente ritrovando una nuova posizione. Processo evolutivo, procedura tecnica, procedere motorio: un superamento di varie fasi vivendo con rigore e consapevolezza ogni momento fino in fondo. La lentezza dell’avanzare rende vivibile, arrestabile il presente: il tempo viene vissuto nella sua doppia dimensione di punto e retta. Il corpo della danzatrice non racconta se stesso, bensì supera la propria fisicità trasformandosi in energia e così creando la forma, costantemente in divenire. Come ricorda Marcello Sambati “I corpi non possono trattenere i gesti, non possono sostare in alcuna forma; il loro stato è la mutazione, il transito, il passaggio, ma sempre da pelle a pelle, da sé a sé, per rivelarsi uguali e diversi, paesaggio che nel cambiamento rimane il medesimo. Noi guardiamo sempre qualcosa che già non c’è. Questi corpi-chimere sono come fiumi, immobili e fluenti, che scorrono lenti e lasciano immaginare nel loro silenzio le belle stagioni, le illusioni e i sogni del tempo vivente”.
Con piccoli movimenti di torsione e opposizione l’artista percorre un tragitto, sino a ritrovare la verticalità, a scuotersi e sciogliersi – in modo quasi primitivo e istintuale – nell’estensione conquistata, fino a precipitare nuovamente ritrovando una nuova posizione. Processo evolutivo, procedura tecnica, procedere motorio: un superamento di varie fasi vivendo con rigore e consapevolezza ogni momento fino in fondo. La lentezza dell’avanzare rende vivibile, arrestabile il presente: il tempo viene vissuto nella sua doppia dimensione di punto e retta. Il corpo della danzatrice non racconta se stesso, bensì supera la propria fisicità trasformandosi in energia e così creando la forma, costantemente in divenire. Come ricorda Marcello Sambati “I corpi non possono trattenere i gesti, non possono sostare in alcuna forma; il loro stato è la mutazione, il transito, il passaggio, ma sempre da pelle a pelle, da sé a sé, per rivelarsi uguali e diversi, paesaggio che nel cambiamento rimane il medesimo. Noi guardiamo sempre qualcosa che già non c’è. Questi corpi-chimere sono come fiumi, immobili e fluenti, che scorrono lenti e lasciano immaginare nel loro silenzio le belle stagioni, le illusioni e i sogni del tempo vivente”.
Sara Maddalena
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