Festival dei Popoli -
Firenze - Il 53˚ Festival dei Popoli, che si è svolto dal 10 al 17 novembre 2012, si è confermato, attraverso i suoi 70 film-documentari, un’ottima chiave di lettura cinematografica della realtà contemporanea. Ora più che mai, in un momento storico in cui l’informazione manifesta tutte le sue carenze, paradossalmente dovute all’enorme quantità di non-notizie, che circolano in tv, internet e giornali, c’è bisogno di un “cinema-verità” che racconti il mondo, che getti uno sguardo più diretto sulle cose e sulla Storia. |
Qual è lo stile-documentario? Non esiste un unico modo di indagare il reale. Il cinema dispiega così tutte le sue possibilità, mescolando immagini reali in un racconto filmico. Lo sguardo risulta talvolta più scientifico, altre volte la realtà è colta nella sua poesia.
A encomio di questo festival e visto l’editoriale di questo mese, ho deciso di parlarvi di Portland2Portland, un film di Andrea Salvadori e di Check point, di Hamed Alizadeh.
A encomio di questo festival e visto l’editoriale di questo mese, ho deciso di parlarvi di Portland2Portland, un film di Andrea Salvadori e di Check point, di Hamed Alizadeh.
Portland2Portland, Andrea Salvadore, Italia, 2012, 102’.
Col tono da grande affabulatore, ma utilizzando il metodo del giornalismo d’inchiesta, Beppe Severgnini, insieme al collega Karl Hoffmann, offre un nuovo ritratto dell’America nell’ultimo periodo, tra elezioni politiche e recessione economica. Rinnovando il mito del viaggio coast to coast, ci mostra anche un’America insolita, lontana da quella raccontata in tv negli ultimi tempi; un’America diversa, dove vengono descritte le storie di persone che vivono in paesi meno noti al flusso turistico, in cui si ritrova il più autentico spirito americano. Il viaggio con i treni Amtrak per 22 Stati da Portland (Main) a Portland (Oregon) si configura come un viaggio d’inchiesta politica: attraversano l’Ohaio, Cleveland, Detroit, Dakota, Montana, Seattle, passando per Chicago, città dove è nato Obama, ma anche per l’insolita Spokane. Ogni città appare unica nel suo genere, con i suoi pregi e i suoi difetti; il treno è un mezzo di trasporto precario, ma ricco di possibilità per interessanti incontri, perché la gente lì si annoia e spesso ha voglia di fare due chiacchere e perché no, lasciarsi intervistare. Incontrando lungo il percorso, democratici e repubblicani, medici, dirigenti, artisti, una giornalista radiofonica, un sindaco e alcuni emigrati europei, i due amici giornalisti rivolgono a tutti la do- manda sulle previsioni del risultato delle nuove elezioni presidenziali. Una ricerca di rassicurazioni incerte, quella di Severgnini e di Hoffmann, almeno prima dell’inizio del viaggio. Il risultato delle elezioni, nelle opinioni degli intervistati, non può che essere supposto e il viaggio dei giornalisti manifesta l’iniziale incertezza, alcuni cambiamenti di rotta o attese, lungo le stazioni ferroviarie e fuori dai palazzi presidenziali. Fare “un film in movimento”, parlando di una società in mutazione è senz’altro un’impresa ardita e dai toni sfuggevoli.
L’esperienza vissuta in quest’America in fase di trasformazione, è stata trasportata direttamente nella sala cinematografica dell’Odeon, dalla presenza di Servegnini, che a sua volta è stato intervistato dall’amico e giornalista Pratellesi. Il cinema rivela la doppia possibilità di interagire con l’immaginario del pubblico e con la vita vissuta, mostrando un’America che non è la stessa dei grandi film hollywoodiani, ma una multietnica società che ha bisogno di reinventarsi.
Check point, Hamed Alizadeh, Francia, 2011, 29’.
Il film offre una rara visione, lo spaccato della vita reale in una situazione surreale come quella della guerra. Lo fa accedendo a uno spazio proibito, mostrandoci come sia la vita di un militare in Afghanistan. Le immagini rivelano la differenza della concezione di polizia di questo paese, da quella occidentale. I soldati sono ripresi nella loro giornata, da quando si alzano, lavorano, mangiano, parlando fra loro, poi pregano, guardano la tv e vanno a dormire: tutto sotto gli occhi indiscreti della videocamera. Vivono in condizioni veramente miserabili, in freddi container, poco o per niente riscaldati, ai bordi delle strade, perché non sempre hanno la possibilità di tornare a casa. Sono giovani e analfabeti, senza una vera istruzione e per questo finiti a fare un lavoro malpagato, che non apprezzano così tanto. I soldati sono malvisti anche dalla popolazione, cosa che si può notare durante i loro turni di servizio, in episodi davvero singolari, nel modo in cui si rapportano ai cittadini e viceversa; agli occhi della gente, infatti, la loro divisa non gli rende certamente un grande onore e nemmeno il grosso fucile che portano in spalla. Che dire, poi, della loro “missione”? La strada in cui si trovano a controllare il traffico, è veramente disordinata, tanto che, anche il loro ruolo risulta confuso. Questi giovani, pur vivendo sotto lo stesso tetto, provengono da etnie e aree geografiche diverse e hanno difficoltà a capirsi fra loro, per la lingua e per la differente visione che hanno della realtà. Ciò che più conta, però, è quello che hanno in comune: il loro paese, le loro famiglie e tutto ciò che riguarda l’esperienza e la conoscenza della vita, che possa avere un uomo, la cui età oscilla fra i venti e i trent’anni. C’è da ricordare che questi soldati non sono a conoscenza di quanto accada nella città, perché controllando l’entrata e l’uscita del traffico di Kabul, vivono in un luogo di transito. Questo li conserva in una dimensione quasi estranea alla realtà. Una dimensione dove essi si confrontano con quanto hanno di più diverso e lontano da loro, pur vivendo accanto a tutta questa estraneità. La scena finale, rispetto al resto del documentario, risulta costruita: nonostante il personaggio ripreso sia uno dei soldati colto in un momento di pausa, le frasi che pronuncia, assorto, sembrano formare quasi una poesia e provenire da un mondo interiore. Un momento di incontro fra l’intimità dell’attore e quella dello spettatore.
Alessia Messina
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