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Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
Viviamo all’interno di una società, ne seguiamo le regole, intrappolati
in ruoli e convenzioni, contraddistinti da etichette assegnate da altri,
eppure aspiriamo sempre ad andare oltre: oltre la parte attribuita,
oltre gli schemi in cui ci muoviamo come marionette con parole e gesti
codificati, oltre noi stessi. Cerchiamo successo, amore, felicità, confidiamo in un miglioramento. La speranza di raggiungere i nostri obiettivi motiva il faticoso viaggio dell’andare verso i nostri sogni. Spesso, però, il risultato della ricerca sembra essere solamente quello di evidenziare che non può esserci progresso: si gira, inevitabilmente e inesorabilmente, in tondo. In un ripetersi di storie sempre uguali – pur nel dive- nire dei tempi e nel mutare dei luoghi – storie di aspettative personali sociali deluse, di fallimenti privati e collettivi, si manifesta l’aspro cinismo della comunità maligna e pettegola, ma in fondo umana nelle proprie individuali sofferenze e aspirazioni. Questa è una delle tante riflessioni che suscita l’eclettico spettacolo No di Andrea Lanciotti – giovane ma già affermato e apprezzato attore di teatro e cinema – andato in scena il 17 novembre al Matta di Pescara, spazio performativo, centro di incontro e laboratorio permanente per la realizzazione di proposte artistiche innovative, che ben si accorda a un lavoro teatrale decisamente originale e contemporaneo. Apre lo spettacolo un monologo, apparentemente uno stream of consciousness, recitato con carisma e intensità dal regista e autore del testo. Si aggiungono quindi un suono cadenzato, metronomo, goccia in un fluire del tempo, una scena spoglia, costumi minimalisti che gli attori mettono e poi tolgono durante lo spettacolo, quasi a voler sottolineare l’aspetto fittizio del teatro, ma ancor più l’aspetto allegorico di una rappresentazione che si rivela fortemente simbolica.
Grazie alla bravura degli interpreti, tutti sempre in scena, pochi particolari sono più che sufficienti a rendere credibili e caratterizzare – senza mai cadere nel cliché – i personaggi, abitanti di questa onirica cittadina, qualificati non con un nome bensì con una mansione, o un soprannome come si usa nei paesi. E, infatti, l’interazione tra i soggetti protagonisti di questa pièce teatrale ha luogo in un villaggio, emblema di tante altre realtà, delle infinite sfaccettature dell’umanità.
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Come spiega Lanciotti nelle note di regia: “i cittadini vivono qui, in un labirinto cieco, svolgendo quotidianamente e sistematicamente le proprie medesime azioni” e quindi “I personaggi sveleranno via via la loro insoddisfazione, il malcontento e le proprie frustrazioni e paure più intime, rivelando la vera essenza del “non luogo” ove sono costretti. Un limbo – il chiusino del mondo - un ricettacolo di reietti e perdenti uniti – per così dire – dal turbamento, schiavi della contemporanea ciclicità, inermi e disorientati, prigionieri della fissità del tempo e dello spazio.” E quello spazio, sospeso, viene delimitato, scomposto, attraversato dalle luci il cui esperto uso aggiunge una componente artistica esteticamente ricercata ad uno spettacolo di grande valore, che riesce a rimanere semplice pur essendo assai complesso. Funziona, proprio perché è ben strutturato e si avvale di diverse componenti compresenti in tutte le parti dell’opera.
Oltre alla scelta di speciali effetti sonori e visivi, luci e musica perfettamente equilibrati e mai invadenti, risalta un testo ben scritto, curato, profondo, recitato ottimamente, che riporta a un teatro di parola di eccellente qualità, cui si aggiungono azioni fisiche che si spingono fino al mimo e alla danza: azioni efficaci, essenziali, studiate con attenzione, ese- guite con precisione e in modo magistrale dagli attori, professionisti di alto livello che mantengono per tutta la durata della rappresentazione un elevato grado di energia, percepibile da chiunque, quasi tangibile.
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Riecheggia il pensiero di E.B. Vachtangov: “l’uomo ha dei momenti in cui vuole particolarmente vivere e percepisce con forza la presenza di tutto ciò che è vivo. Diventa attivo e le sue azioni, buone o malvagie, si manifestano con particolare chiarezza”. Il vortice del movimento dei personaggi e la loro interazione cattura il pubblico, l’alternarsi di momenti dinamici e stasi, ossessive reiterazioni e sofferte interruzioni, in un continuo, ciclico, andare e tornare, presenza e assenza, avvicinarsi e allontanarsi, disorienta lo spettatore e nel contempo lo accompagna nello scorrere di vita ed esistenze, nella ricerca che è ritorno e si sostanzia in un concreto ripercorrere il tempo e lo spazio. L’opera fornisce un’analisi sociale e psicologica interessante, esamina sentimenti e comportamenti degli individui, senza giudicarli ma solo mos- trando verità del quotidiano, a volte giocosamente, a volte con crudeltà. Ma non è un dramma nichilista, triste, o pessimista, anzi.
Come direbbe A. Artaud “c’è in questo spettacolo una forza segreta che conquista il pubblico, come un grande amore conquista un’anima pronta alla ribellione”. Lo spettatore viene trascinato, coinvolto in una sorta di suggestiva visione che svela, con esperta magia, la realtà; esce più consapevole, sensibilizzato, rafforzato, grazie all’intrinseca vitalità della messa in scena, alla forza della poesia e all’intensità delle emozioni di cui questo spettacolo è straordinariamente ricco.
Come direbbe A. Artaud “c’è in questo spettacolo una forza segreta che conquista il pubblico, come un grande amore conquista un’anima pronta alla ribellione”. Lo spettatore viene trascinato, coinvolto in una sorta di suggestiva visione che svela, con esperta magia, la realtà; esce più consapevole, sensibilizzato, rafforzato, grazie all’intrinseca vitalità della messa in scena, alla forza della poesia e all’intensità delle emozioni di cui questo spettacolo è straordinariamente ricco.
Sara Maddalena
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