Musikanten rubrica diretta da Fabio Treppiedi
Questo è
un nodo avviluppato...
la mistica dei logoi Un orecchio è sempre qualcosa di inquietante. Freud direbbe perturbante (Das Unheimliche)[1]. Un orecchio è un organo, familiare, eppure ha in sé tutta la forza della maschera, di ciò che è al di là della funzione che crea l’organo: l’ascolto.
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Il soggetto umano, in quanto oggetto-desiderante, sa, al contrario dell’animale, orientarsi nella cattura immaginaria. Isolando la funzione di schermo rispetto ad una ipotetica iperstimolazione, l’uomo riesce a mantenersi all’interno della fluttuazione immaginaria (illusoria) attraverso lo schermo come cornice che non lo fa scivolare nell’inganno. Un orecchio, che sia vero o simulato, è sempre la traccia di una presenza. L’ascolto è fuori, è qualcosa che non partecipa dell’estensione dell’Io nello spazio psichico, è un qualcosa da cui dipende il fantasma, è un desiderio attorno al quale si costituisce il vuoto ad essere della pulsione. È fantasmatico perché è là fuori (anche dal mio controllo), ma pur sempre inerente alla pulsione.
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Il problema della percezione, però, rimbalza immediatamente su se stesso: se esso rappresenta il tentativo di attestare la nostra primordiale e originaria apertura al mondo, tale attestazione, tuttavia, non è mai compiuta, non è mai compiutamente espressa o esprimibile.
Qualcosa resta, appunto. Questa costitutiva apertura della percezione che contribuisce a fondare il suo carattere paradossale, è ben espressa da Merleau-Ponty in Elogio della filosofia dove, nelle pagine dedicate al filosofo Henri Bergson, è affermato che raggiungere il cuore della percezione equivarrebbe ad afferrare tutto del mondo, ma che, tuttavia, rimane e non può che rimanere sempre uno scarto nell’espressione di questo afferrare[2].
Non si dovrebbe scrivere “sulla” musica ma “con” la musica (con l’arte in generale viene da aggiungere) scrive Jankélévich nel corso di un’intervista[3]. La frase è volutamente paradossale ma va letta con massima serietà. Essa ci vuol “dire” come solo all’interno dell’arte medesima può nascere quell’atteggiamento che fa dell’arte un “oggetto” su cui, appunto, scrivere. L’andatura di questo scrivere non potrà che essere asistematica e poco propensa a seguire i canoni convenzionali della saggistica classica. L’arte non è fatta per rivelare il senso, al limite, ancora una volta paradossalmente, l’arte, il senso lo mostra proprio sottraendolo e rendendolo fugace nell’atto stesso di rivelarlo. Noi possiamo, al limite, giusto intravederlo per riverberazione (“dirlo e ridirlo instancabilmente e inesauribilmente”[4]), ma non portarlo al “dire” sostanziale come spesso ci hanno provato a fare credere nel contesto della cultura occidentale.
Qualcosa resta, appunto. Questa costitutiva apertura della percezione che contribuisce a fondare il suo carattere paradossale, è ben espressa da Merleau-Ponty in Elogio della filosofia dove, nelle pagine dedicate al filosofo Henri Bergson, è affermato che raggiungere il cuore della percezione equivarrebbe ad afferrare tutto del mondo, ma che, tuttavia, rimane e non può che rimanere sempre uno scarto nell’espressione di questo afferrare[2].
Non si dovrebbe scrivere “sulla” musica ma “con” la musica (con l’arte in generale viene da aggiungere) scrive Jankélévich nel corso di un’intervista[3]. La frase è volutamente paradossale ma va letta con massima serietà. Essa ci vuol “dire” come solo all’interno dell’arte medesima può nascere quell’atteggiamento che fa dell’arte un “oggetto” su cui, appunto, scrivere. L’andatura di questo scrivere non potrà che essere asistematica e poco propensa a seguire i canoni convenzionali della saggistica classica. L’arte non è fatta per rivelare il senso, al limite, ancora una volta paradossalmente, l’arte, il senso lo mostra proprio sottraendolo e rendendolo fugace nell’atto stesso di rivelarlo. Noi possiamo, al limite, giusto intravederlo per riverberazione (“dirlo e ridirlo instancabilmente e inesauribilmente”[4]), ma non portarlo al “dire” sostanziale come spesso ci hanno provato a fare credere nel contesto della cultura occidentale.
Siamo quindi “condannati” a una sigetica? Proprio noi esseri umani che dovremmo essere la dimora del linguaggio?
Ma che cosa significa per l’uomo, il vivente, il parlante che ha il linguaggio, fare esperienza del silenzio? Una linea di orientamento interpretativa è tracciata da Agamben, di rimando all’analisi di alcuni testi siriaci, in un articolo del 1983 dal significativo titolo “Il silenzio del linguaggio”[5]. |
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Agamben commenta un passo di Giovanni il Solitario, che descrive il termine ultimo dell’itinerario della mente che nella preghiera si eleva all’estasi, da Giovanni definito “preghiera spirituale”, e cerca di mettere in luce il senso del silenzio cui questo percorso progressivamente conduce e che molto assomiglia al “suono della quiete” che prospetta Heidegger nelle pagine conclusive della conferenza su “L’essenza del linguaggio”[6].
Il passo di Giovanni esaminato è il seguente: “Silenzio è Dio, e nel silenzio è cantato a Dio quel cantico che è degno di lui. Non dico nel silenzio della lingua. Se uno tace con la lingua non sapendo cantare in mente e spirito, questi nel suo silenzio è ozioso, e mali pensieri salgono a lui perché tace esteriormente, ma non sa cantare interiormente, data che non è stata ancora sciolta la lingua dell’uomo nascosto perché balbetti. Come infatti guardi a questo infante e fanciullino in natura, allo stesso modo guarda a quell’infante interiore, spirituale, perché come è ferma la lingua del fanciullino che non conosce ancora parole, e la sua lingua solo sta dentro la bocca, non avendo il movimento della parola, così anche quella lingua interna della mente sarà muta di ogni parola e di ogni parola e di ogni considerazione, e solo starà e sarà pronta ad apprendere il balbettio del discorso spirituale”.
Anzitutto è evidente che il silenzio che qui è in questione non è tale da non intrattenere alcuna relazione con il linguaggio, cui invece è essenzialmente unito e non può essere ridotto a un banale tacere. Al contrario, questo silenzio parla e canta, o più precisamente è un cantare in mente e in spirito, un discorso spirituale (o risonanza del silenzio).
Gli stadi del cammino attraverso le figure del silenzio sono gli stessi del cammino attraverso le figure del discorso.
Esso muove, come una sorta di richiamo, al di là del silenzio della lingua carnale (ovvero quella significativa) all’approdo della lingua interna della mente.
Chi ne fa esperienza, scrive Agamben, è come se percorresse “tutto il linguaggio e tutti i predicati e, in ognuno di essi, fa silenzio, in ognuno di essi pensa, raggiunge il concetto, e, in ogni pensiero, nuovamente fa silenzio, cioè raggiunge il limite di ciò che è pensato secondo una scienza e un nome, soltanto l’essere, l’assolutamente semplice”.
Un “è” appare là dove la parola viene meno[7]. A questo punto, allora, come può accadere che, colui che esperisca il cammino verso il linguaggio, possa trovarsi in uno stato di stupore, così colui che ha fatto tacere ormai tutto il linguaggio e tutte le categorie compie l’esperienza dell’essere come esperienza dello stupore per il silenzio che è su di lui, e, in questo stupore, il silenzio parla e canta, anche se soltanto in spirito.
Il luogo verso cui è diretto l’itinerario attraverso gli stadi del silenzio e del discorso è, dunque, quello stesso in cui il silenzio si rovescia in linguaggio e lo stupore acquisisce una Voce. Quel che essa esprime, non può che esprimerlo “silenziosamente”, perché nessuna proposizione (nessun “sapere composto”) può esprimere l’aver luogo del linguaggio. Questa Voce, spiega Agamben, “è la stessa incomprensibile nascita della parola”.
Se di una mistica nella musica si può parlare, essa, se l’interpretazione di Agamben ha colto nel segno, è propriamente tutta nei logoi.
Il passo di Giovanni esaminato è il seguente: “Silenzio è Dio, e nel silenzio è cantato a Dio quel cantico che è degno di lui. Non dico nel silenzio della lingua. Se uno tace con la lingua non sapendo cantare in mente e spirito, questi nel suo silenzio è ozioso, e mali pensieri salgono a lui perché tace esteriormente, ma non sa cantare interiormente, data che non è stata ancora sciolta la lingua dell’uomo nascosto perché balbetti. Come infatti guardi a questo infante e fanciullino in natura, allo stesso modo guarda a quell’infante interiore, spirituale, perché come è ferma la lingua del fanciullino che non conosce ancora parole, e la sua lingua solo sta dentro la bocca, non avendo il movimento della parola, così anche quella lingua interna della mente sarà muta di ogni parola e di ogni parola e di ogni considerazione, e solo starà e sarà pronta ad apprendere il balbettio del discorso spirituale”.
Anzitutto è evidente che il silenzio che qui è in questione non è tale da non intrattenere alcuna relazione con il linguaggio, cui invece è essenzialmente unito e non può essere ridotto a un banale tacere. Al contrario, questo silenzio parla e canta, o più precisamente è un cantare in mente e in spirito, un discorso spirituale (o risonanza del silenzio).
Gli stadi del cammino attraverso le figure del silenzio sono gli stessi del cammino attraverso le figure del discorso.
Esso muove, come una sorta di richiamo, al di là del silenzio della lingua carnale (ovvero quella significativa) all’approdo della lingua interna della mente.
Chi ne fa esperienza, scrive Agamben, è come se percorresse “tutto il linguaggio e tutti i predicati e, in ognuno di essi, fa silenzio, in ognuno di essi pensa, raggiunge il concetto, e, in ogni pensiero, nuovamente fa silenzio, cioè raggiunge il limite di ciò che è pensato secondo una scienza e un nome, soltanto l’essere, l’assolutamente semplice”.
Un “è” appare là dove la parola viene meno[7]. A questo punto, allora, come può accadere che, colui che esperisca il cammino verso il linguaggio, possa trovarsi in uno stato di stupore, così colui che ha fatto tacere ormai tutto il linguaggio e tutte le categorie compie l’esperienza dell’essere come esperienza dello stupore per il silenzio che è su di lui, e, in questo stupore, il silenzio parla e canta, anche se soltanto in spirito.
Il luogo verso cui è diretto l’itinerario attraverso gli stadi del silenzio e del discorso è, dunque, quello stesso in cui il silenzio si rovescia in linguaggio e lo stupore acquisisce una Voce. Quel che essa esprime, non può che esprimerlo “silenziosamente”, perché nessuna proposizione (nessun “sapere composto”) può esprimere l’aver luogo del linguaggio. Questa Voce, spiega Agamben, “è la stessa incomprensibile nascita della parola”.
Se di una mistica nella musica si può parlare, essa, se l’interpretazione di Agamben ha colto nel segno, è propriamente tutta nei logoi.
Roberto Zanata
[1] Vocabolo utilizzato
da Freud come termine concettuale per esprimere in ambito estetico una
particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una
impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed
estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole
sensazione di confusione ed estra-neità.
[2] M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia (1953), Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 18-29.
[3] Il medesimo concetto ritorna anche ne La musica e l’ineffabile. V. Jankélévich, La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano, 1998.
[4] Per Jankélévich la musica vive di quell’instabile rotazione fra essere e non essere, espressione/inesprimibile, suono/ineffabile, in cui essa soltanto può mantenersi in un rapporto precario, in gioco col silenzio che soltanto la fa essere. Appare evidente come l’ince- dere della sua filosofia intrattenga più di una parentela con la “filosofia negativa” e la teologia apofantica (dimostrazione per negazione in riferimento alla natura di Dio), senza mai negarsi a una sfida con il linguaggio attraverso andirivieni di argomentazioni (“vagabon- dare umoristico”) intorno alle questioni di volta in volta prese in esame.
[5] G.Agamben, Il silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo (a cura di), Margaritae, Venezia: Arsenale, 1983, pp. 69-79.
[6] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999.
[7] Per Heidegger poetare e pensare abitano in una prossimità che li avvicina l’uno all’altro e che egli definisce con il termine Sage, ovvero il “Dire originario”. Il raccogliere ogni cosa di questo Dire originario è silenzioso, come il suono della quiete. In questa espe- rienza, che potrebbe essere definita a tutti gli effetti un’esperienza trascendentale del linguaggio, un “è” appare là dove la parola viene meno, esattamente come nel passo di Giovanni il Solitario esaminato da Agamben. Questo venir meno della parola è, per Heidegger, l’autentico passo a ritroso sul cammino del pensiero.
[2] M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia (1953), Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 18-29.
[3] Il medesimo concetto ritorna anche ne La musica e l’ineffabile. V. Jankélévich, La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano, 1998.
[4] Per Jankélévich la musica vive di quell’instabile rotazione fra essere e non essere, espressione/inesprimibile, suono/ineffabile, in cui essa soltanto può mantenersi in un rapporto precario, in gioco col silenzio che soltanto la fa essere. Appare evidente come l’ince- dere della sua filosofia intrattenga più di una parentela con la “filosofia negativa” e la teologia apofantica (dimostrazione per negazione in riferimento alla natura di Dio), senza mai negarsi a una sfida con il linguaggio attraverso andirivieni di argomentazioni (“vagabon- dare umoristico”) intorno alle questioni di volta in volta prese in esame.
[5] G.Agamben, Il silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo (a cura di), Margaritae, Venezia: Arsenale, 1983, pp. 69-79.
[6] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999.
[7] Per Heidegger poetare e pensare abitano in una prossimità che li avvicina l’uno all’altro e che egli definisce con il termine Sage, ovvero il “Dire originario”. Il raccogliere ogni cosa di questo Dire originario è silenzioso, come il suono della quiete. In questa espe- rienza, che potrebbe essere definita a tutti gli effetti un’esperienza trascendentale del linguaggio, un “è” appare là dove la parola viene meno, esattamente come nel passo di Giovanni il Solitario esaminato da Agamben. Questo venir meno della parola è, per Heidegger, l’autentico passo a ritroso sul cammino del pensiero.
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