L’arte
dell’“innaturale natura”: il tempo infinito nella narrazione Intervista a Enrico Ratti di Alessandro Rizzo Enrico Ratti è un artista a tutto tondo: disegnatore, pittore, illustratore, scrittore e giornalista. Lo abbiamo intervistato, reduce da una serie di personali ed esposizioni che lo hanno visto, nella storia della sua attività, presente anche nello scenario europeo e internazionale. |
“L’innaturale natura” è ciò che vuole rappresentare attraverso la sua arte, ha detto lo stesso autore, da noi intervistato. La sua rappresentazione è “il frutto di un artificio … dell’arte del fare … di un manuale intellettuale che procedendo dalla memoria, dall’invenzione e dalla materia approda alla qualità”.
Come nasce Enrico Ratti in quanto pittore e artista?
La storia incomincia che nascevo. Nascevo e già dipingevo. Mi spiego. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia particolare, strana e bizzarra. Mio nonno materno, Ernesto, era direttore del teatro dell’Opera di Mantova, il teatro Sociale. Mio nonno paterno, Erminio, era sovrintendente del teatro d’avanspettacolo di Mantova, il teatro Andreani. In questi due teatri, così diversi e lontani tra loro, a prevalere era però il colore. Il colore della voce nel teatro Sociale; il colore delle pantomime, delle canzonette e dei giochi di parole nel teatro Andreani. Questi colori si accompagnavano sempre a colossali quinte di cartapesta e a fondali che rappresentavano boschi magici e città fantastiche. Oppure mi balzavano davanti agli occhi negli sfrenati passi di danza delle ballerine dell’avanspettacolo. In un certo qual modo, quel mondo leggendario e fantastico mi interrogava giorno e notte e chiedeva di essere scritto per non farsi dimenticare. E così fin da piccolo, ubbidendo a quel monito imperioso e categorico, presi l’abitudine di disegnare delle figurine stilizzate ovunque mi capitasse: sui quaderni, sui libri di scuola, sui muri della mia stanza, sui fogli dei giornali, sulla carta da pacchi e così via. E queste mie sottili speculazioni, man mano che affinavo la tecnica del disegno prendevano in considerazione tutte le qualità delle forme: il palcoscenico e il pubblico, la pelle , la carne, le ossa delle ballerine e dei buffoni e anche le pieghe dei vestiti e dei mantelli degli attori e del sipario di velluto rosso con le frange dorate.
Questa mia attitudine al disegno e alla pittura non era sfuggita a mio padre Enzo che, una volta finite le scuole medie, mi iscrisse all’Istituto Statale d’Arte di Guidizzolo in provincia di Mantova. Seguendo gli insegnamenti dei miei maestri ho imparato a usare i colori a olio e i colori acrilici e a cingere figure e paesaggi di ombra e lume. Ma, soprattutto, in quella bottega d’arte ho imparato a pensare la pittura.
Come nasce Enrico Ratti in quanto pittore e artista?
La storia incomincia che nascevo. Nascevo e già dipingevo. Mi spiego. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia particolare, strana e bizzarra. Mio nonno materno, Ernesto, era direttore del teatro dell’Opera di Mantova, il teatro Sociale. Mio nonno paterno, Erminio, era sovrintendente del teatro d’avanspettacolo di Mantova, il teatro Andreani. In questi due teatri, così diversi e lontani tra loro, a prevalere era però il colore. Il colore della voce nel teatro Sociale; il colore delle pantomime, delle canzonette e dei giochi di parole nel teatro Andreani. Questi colori si accompagnavano sempre a colossali quinte di cartapesta e a fondali che rappresentavano boschi magici e città fantastiche. Oppure mi balzavano davanti agli occhi negli sfrenati passi di danza delle ballerine dell’avanspettacolo. In un certo qual modo, quel mondo leggendario e fantastico mi interrogava giorno e notte e chiedeva di essere scritto per non farsi dimenticare. E così fin da piccolo, ubbidendo a quel monito imperioso e categorico, presi l’abitudine di disegnare delle figurine stilizzate ovunque mi capitasse: sui quaderni, sui libri di scuola, sui muri della mia stanza, sui fogli dei giornali, sulla carta da pacchi e così via. E queste mie sottili speculazioni, man mano che affinavo la tecnica del disegno prendevano in considerazione tutte le qualità delle forme: il palcoscenico e il pubblico, la pelle , la carne, le ossa delle ballerine e dei buffoni e anche le pieghe dei vestiti e dei mantelli degli attori e del sipario di velluto rosso con le frange dorate.
Questa mia attitudine al disegno e alla pittura non era sfuggita a mio padre Enzo che, una volta finite le scuole medie, mi iscrisse all’Istituto Statale d’Arte di Guidizzolo in provincia di Mantova. Seguendo gli insegnamenti dei miei maestri ho imparato a usare i colori a olio e i colori acrilici e a cingere figure e paesaggi di ombra e lume. Ma, soprattutto, in quella bottega d’arte ho imparato a pensare la pittura.
Emerge, cioè, dove c’è un’urgenza di espressione e di comunicazione. Nel mio caso l’arte è emersa come urgenza di comunicare e di trasmettere la memoria di un mondo bellissimo e affascinante: il mondo del teatro. E delle maschere.
Che cosa rappresenti attraverso l’arte?
Attraverso l’arte “rappresento” l’innaturale natura. Ossia “rappresento” il frutto di un artificio.
Il frutto dell’arte del fare. Il frutto di un manuale intellettuale che procedendo dalla memoria, dall’invenzione e dalla materia approda alla qualità. Sta qui l’altro tempo della mia arte. Il tempo infinito.
Quale opera ti rappresenta di più?
L’opera che mi rappresenta di più è La cena rustica. Un quadro che amo usare come copertina del mio profilo Facebook, ma che è anche la copertina di un libro diventato famosissimo negli Stati Uniti: Detto tra noi. La cena rustica è un grande quadro a olio dove viene raffigurata una cena organizzata nel palchetto di un teatro di provincia mentre è in corso uno spettacolo. Lo spettacolo non si vede ma tutti i personaggi sono caratterizzati e modificati da ciò che sta accadendo sul palcoscenico. Questo espediente narrativo mi ha permesso di collocarli in una scena aperta e in continuo movimento. Scena caratterizzata da un altrove strano e irreale che costringe il lettore del quadro non all’indifferenza narrativa, ma alla riflessione e al racconto.
Che cosa rappresenti attraverso l’arte?
Attraverso l’arte “rappresento” l’innaturale natura. Ossia “rappresento” il frutto di un artificio.
Il frutto dell’arte del fare. Il frutto di un manuale intellettuale che procedendo dalla memoria, dall’invenzione e dalla materia approda alla qualità. Sta qui l’altro tempo della mia arte. Il tempo infinito.
Quale opera ti rappresenta di più?
L’opera che mi rappresenta di più è La cena rustica. Un quadro che amo usare come copertina del mio profilo Facebook, ma che è anche la copertina di un libro diventato famosissimo negli Stati Uniti: Detto tra noi. La cena rustica è un grande quadro a olio dove viene raffigurata una cena organizzata nel palchetto di un teatro di provincia mentre è in corso uno spettacolo. Lo spettacolo non si vede ma tutti i personaggi sono caratterizzati e modificati da ciò che sta accadendo sul palcoscenico. Questo espediente narrativo mi ha permesso di collocarli in una scena aperta e in continuo movimento. Scena caratterizzata da un altrove strano e irreale che costringe il lettore del quadro non all’indifferenza narrativa, ma alla riflessione e al racconto.
A chi vuoi rivolgerti attraverso la tua produzione?
La mia pittura si rivolge a Nessuno. Quindi né a qualcuno, né a ognuno. Tantomeno a uno standard iconico. Infatti le mie opere per essere apprezzate esigono la riflessione, la solitudine e un distacco assoluto dall’idea che l’arte possa essere consumata come un prodotto da supermercato. |
A ben guardare le mie opere si rivolgono a un pubblico che non cerca la facile comprensione, la significazione immediata o un modello ideale da imitare o da rispettare; i miei quadri promuovono l’incontro con un oggetto aberrante, straniante e impertinente. Un oggetto che mai, neppure per un breve istante, smette di provocare e di esigere altri e ben più complessi sforzi di lettura.
Definisci Giotto come un riferimento tuo nella fase di elaborazione della tua poetica e della tua arte: che cosa di Fiotto ti influenza?
Ciò che mi affascina in Giotto è la sua capacità di farci entrare nei suoi dipinti per via di una tensione che è intellettuale e non sostanziale. Mi spiego. Se, per esempio, guardiamo un paesaggio della Cappella degli Scrovegni, dove su degli spuntoni di roccia vengono disegnati un sentiero, due asinelli, dei viandanti e degli alberelli, ci accorgiamo che in quel paesaggio non c’è nulla di immobile perché tutto è in movimento. Prima di Giotto non era così. I temi religiosi erano trattati in altro modo, in modo fisso e ieratico. Arriva Giotto e mette uno che va lì e uno che va là. Ebbene, questo andare, questo andamento narrativo, costituisce la tensione dell’immagine.
Una tensione che trascina verso la tentazione di sentirci sull’asinello che si inerpica su una montagna improbabile. Improbabile proprio come un’allegoria. In Giotto, infatti, non c’è realismo della montagna, c’è solo allegoria. Quindi uno realmente si sente lì con la bisaccia a tracolla e in cammino insieme ad altre figurine col bastone e col mantello. Ecco, questo tipo di tensione narrativa, questa operatività dell’immagine, è ciò che mi ha sempre affascinato nell’opera di Giotto ed è ciò che ho sempre cercato di applicare anche nei miei dipinti.
Quali sono le fasi della tua produzione: ossia l’ispirazione dove l’apprendi? E la fase di elaborazione e di compimento dell’opera da dove vengono?
Definisci Giotto come un riferimento tuo nella fase di elaborazione della tua poetica e della tua arte: che cosa di Fiotto ti influenza?
Ciò che mi affascina in Giotto è la sua capacità di farci entrare nei suoi dipinti per via di una tensione che è intellettuale e non sostanziale. Mi spiego. Se, per esempio, guardiamo un paesaggio della Cappella degli Scrovegni, dove su degli spuntoni di roccia vengono disegnati un sentiero, due asinelli, dei viandanti e degli alberelli, ci accorgiamo che in quel paesaggio non c’è nulla di immobile perché tutto è in movimento. Prima di Giotto non era così. I temi religiosi erano trattati in altro modo, in modo fisso e ieratico. Arriva Giotto e mette uno che va lì e uno che va là. Ebbene, questo andare, questo andamento narrativo, costituisce la tensione dell’immagine.
Una tensione che trascina verso la tentazione di sentirci sull’asinello che si inerpica su una montagna improbabile. Improbabile proprio come un’allegoria. In Giotto, infatti, non c’è realismo della montagna, c’è solo allegoria. Quindi uno realmente si sente lì con la bisaccia a tracolla e in cammino insieme ad altre figurine col bastone e col mantello. Ecco, questo tipo di tensione narrativa, questa operatività dell’immagine, è ciò che mi ha sempre affascinato nell’opera di Giotto ed è ciò che ho sempre cercato di applicare anche nei miei dipinti.
Quali sono le fasi della tua produzione: ossia l’ispirazione dove l’apprendi? E la fase di elaborazione e di compimento dell’opera da dove vengono?
Io non ho fasi di elaborazione e di compimento dell’opera. Il mio procedimento non è così lineare. Procede a balzi e a svolte improvvise perché cerco sempre di inventare un idioma pittorico inedito e singolare con cui interpretare i fatti della vita e gli elementi e gli eventi che la caratterizzano. Io sono convinto che il pittore debba identificarsi, a costo di incontrare la follia, con un oggetto anomalo causa di verità, di riso e di invenzione.
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La tecnica è sempre qualcosa di manuale, di concreto e di pratico. La sua missione autentica, invece, è quella di portare la rivoluzione dell’immagine verso la sua cifra e la sua qualità. E verso il suo piacere. Piacere del compimento e della riuscita.
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