Intensità libere
Risposta all’editoriale di S. Zanobetti apparso in Alphaville, mese di gennaio Risposta di Francesco Panizzo |
Caro direttore,
con piacere colgo l’occasione per fare chiarezza sul mio intento culturale. Cercherò di non fare citazioni in modo tale da parlarle direttamente a lei e di non inciampare in quello spregiudicato stile di far uso/abuso di un dire altrui, rispettando così una citazione come forma di “soggetto collettivo già dato a cui far riferimento”, come mi chiede di fare. Lungi da me “l’estetismo citazionista ed esornativo postmoderno” di cui vorrebbe farmi portavoce.
Quando per “noi” lei intende «“intensità libere” di ricomporsi in una forma di enunciazione collettiva» sono piuttosto d’accordo. Lo sono meno quando parla di “totalità impossibile”. Da poco si è celebrato il giorno della memoria, il cui senso è proprio quello di ricordarci che una totalità non è impossibile, anzi, ahimè.
Nella provocazione che mi ha teso nello scorso editoriale dalla sua rivista di ecosofia, pare vada trattando l’ambiente (o il territorio) di una qualche dualità cerebrale irrisolta, un mistero anche per le teorie darwiniane più erudite sull’evoluzione. Mi sta dunque parlando di destra e sinistra, di comunismo e liberismo, etc.. etc.. Vede, nei miei editoriali, io non mi son posto con l’idea di esaltare un oggetto privilegiato rispetto a eventuali minoranze o viceversa (difficile intendere cosa volesse dirmi per quanto io ami l’incoerenza del linguaggio). Io ho voluto intenzionalmente e piuttosto palesemente provocare “intensità libere” come le chiama lei o chi per lei. Questa volontà è tipica di coloro che prediligono gli scricchiolii delle tavole di un palco piuttosto che i belletti ben aderenti alle labbra delle attrici che vi “soggiornano” sopra. Provocano sempre una certa verità nelle sensazioni dello spettatore, gli scricchiolii delle assi del palco, rispetto alla finzione della messa in scena che si celebra lor sopra.. Provocare “a casa mia” significa rendere consapevole qualcuno dell’appartenenza a un tutto che è Universo, ciò che ha un unico verso, appunto, non dato e infinito, quindi una semplice traiettoria che predilige un delta all’unisono o, al massimo, il capovolgimento di direzione fra questi, ma non di sicuro ho prediletto la sottomissione di un lato della dualità nei confronti dell’altro. Tradire, da tra-durre, la parola in intensità libere, appunto.
con piacere colgo l’occasione per fare chiarezza sul mio intento culturale. Cercherò di non fare citazioni in modo tale da parlarle direttamente a lei e di non inciampare in quello spregiudicato stile di far uso/abuso di un dire altrui, rispettando così una citazione come forma di “soggetto collettivo già dato a cui far riferimento”, come mi chiede di fare. Lungi da me “l’estetismo citazionista ed esornativo postmoderno” di cui vorrebbe farmi portavoce.
Quando per “noi” lei intende «“intensità libere” di ricomporsi in una forma di enunciazione collettiva» sono piuttosto d’accordo. Lo sono meno quando parla di “totalità impossibile”. Da poco si è celebrato il giorno della memoria, il cui senso è proprio quello di ricordarci che una totalità non è impossibile, anzi, ahimè.
Nella provocazione che mi ha teso nello scorso editoriale dalla sua rivista di ecosofia, pare vada trattando l’ambiente (o il territorio) di una qualche dualità cerebrale irrisolta, un mistero anche per le teorie darwiniane più erudite sull’evoluzione. Mi sta dunque parlando di destra e sinistra, di comunismo e liberismo, etc.. etc.. Vede, nei miei editoriali, io non mi son posto con l’idea di esaltare un oggetto privilegiato rispetto a eventuali minoranze o viceversa (difficile intendere cosa volesse dirmi per quanto io ami l’incoerenza del linguaggio). Io ho voluto intenzionalmente e piuttosto palesemente provocare “intensità libere” come le chiama lei o chi per lei. Questa volontà è tipica di coloro che prediligono gli scricchiolii delle tavole di un palco piuttosto che i belletti ben aderenti alle labbra delle attrici che vi “soggiornano” sopra. Provocano sempre una certa verità nelle sensazioni dello spettatore, gli scricchiolii delle assi del palco, rispetto alla finzione della messa in scena che si celebra lor sopra.. Provocare “a casa mia” significa rendere consapevole qualcuno dell’appartenenza a un tutto che è Universo, ciò che ha un unico verso, appunto, non dato e infinito, quindi una semplice traiettoria che predilige un delta all’unisono o, al massimo, il capovolgimento di direzione fra questi, ma non di sicuro ho prediletto la sottomissione di un lato della dualità nei confronti dell’altro. Tradire, da tra-durre, la parola in intensità libere, appunto.
Quando per “noi” lei intende «“intensità libere” di ri- comporsi in una forma di enunciazione collettiva» sono piuttosto d’accordo. Lo sono meno quando parla di “to- talità impossibile”. Da poco si è celebrato il giorno della memoria, il cui senso è proprio quello di ricordarci che una totalità non è impossibile, anzi, ahimè.
Nella provocazione che mi ha teso nello scorso editoriale dalla sua rivista di ecosofia, pare vada trattando l’ambiente (o il territorio) di una qualche dualità cerebrale irrisolta, un mistero anche per le teorie darwiniane più erudite sull’evoluzione. Mi sta dunque parlando di destra e sinistra, di comunismo e liberismo, etc.. etc.. |
Vede, nei miei editoriali, io non mi son posto con l’idea di esaltare un oggetto privilegiato rispetto a eventuali minoranze o viceversa (difficile intendere cosa volesse dirmi per quanto io ami l’incoerenza del linguaggio). Io ho voluto intenzionalmente e piuttosto palesemente provocare “intensità libere” come le chiama lei o chi per lei. Questa volontà è tipica di coloro che prediligono gli scricchiolii delle tavole di un palco piuttosto che i belletti ben aderenti alle labbra delle attrici che vi “soggiornano” sopra. Provocano sempre una certa verità nelle sensazioni dello spettatore, gli scricchiolii delle assi del palco, rispetto alla finzione della messa in scena che si celebra lor sopra.. Provocare “a casa mia” significa rendere consapevole qualcuno dell’appartenenza a un tutto che è Universo, ciò che ha un unico verso, appunto, non dato e infinito, quindi una semplice traiettoria che predilige un delta all’unisono o, al massimo, il capovolgimento di direzione fra questi, ma non di sicuro ho prediletto la sottomissione di un lato della dualità nei confronti dell’altro. Tradire, da tra-durre, la parola in intensità libere, appunto.
Per tutto quanto concerne l’ultima parte del suo provocante editoriale la rimando alla lettura del mio libro Quel me smedesimo, nella speranza di non apparire cattedratico e di non fare il verso a quei docenti universitari che fingono nostalgia per il buon vecchio comunismo (o come sottendono: un comunismo travisato dalle nuove leve, perché loro sì, che sono i veri comunisti) mentre razzolano male; un verso, quello dei poteri della didattica in questo caso, che vede abbracciare incredibilmente quel neoliberismo della vendita dei propri testi ai propri o ad altri studenti o di far capitale con gli introiti sulle tesi (dalle 200 alle 1000 euro a studente per tesi mai corrette, probabilmente neanche lette..). Le consiglio di leggere questo libro, quindi, solamente per poterci armonizzare maggiormente sulla funzioni del mio operare e perché io non venga travisato sul dire dei miei editoriali. Un dire fisicamente presente, partorito dalla pratica e dal sangue della sopravvivenza alla quale, come molti oggi, sono stato obbligato e destinato molto più di coloro che investono sulla comoda rivalsa del sessantottino rimasto senza podio (che ha voluto prima e vuole ora). Un obbligo e una predestinazione la mia e di molti altri oggi, che hanno preso la meglio sulla possibilità di starsene comodi a strusciarsi per favorire la perpetuazione della specie. Noi, la specie che potremmo comunque perpetuare, non potremo permetterci di mantenere. Forse solo un altro complotto, meno radicale e più sotteso di uno statuto rivalutato per la nostra società, un “Made in China” (comunismo capitalistico dell’economia mista come controllo delle nascite) o molto probabilmente una forma di esaltazione autoritaria di identità corporativiste che vede docenti e politici o comunque gente i potere, alloggiarsi in una identitaria Cina de no’altri (mi scuso se do l’idea di far parlare le minoranze linguistiche, un certo Pasolini chiamava questa pratica poetica “mimesi dal basso”), una “China made in Italy”… dall’in- segnamento, alla politica, alla coscienza sociale.
Per tutto quanto concerne l’ultima parte del suo provocante editoriale la rimando alla lettura del mio libro Quel me smedesimo, nella speranza di non apparire cattedratico e di non fare il verso a quei docenti universitari che fingono nostalgia per il buon vecchio comunismo (o come sottendono: un comunismo travisato dalle nuove leve, perché loro sì, che sono i veri comunisti) mentre razzolano male; un verso, quello dei poteri della didattica in questo caso, che vede abbracciare incredibilmente quel neoliberismo della vendita dei propri testi ai propri o ad altri studenti o di far capitale con gli introiti sulle tesi (dalle 200 alle 1000 euro a studente per tesi mai corrette, probabilmente neanche lette..). Le consiglio di leggere questo libro, quindi, solamente per poterci armonizzare maggiormente sulla funzioni del mio operare e perché io non venga travisato sul dire dei miei editoriali. Un dire fisicamente presente, partorito dalla pratica e dal sangue della sopravvivenza alla quale, come molti oggi, sono stato obbligato e destinato molto più di coloro che investono sulla comoda rivalsa del sessantottino rimasto senza podio (che ha voluto prima e vuole ora). Un obbligo e una predestinazione la mia e di molti altri oggi, che hanno preso la meglio sulla possibilità di starsene comodi a strusciarsi per favorire la perpetuazione della specie. Noi, la specie che potremmo comunque perpetuare, non potremo permetterci di mantenere. Forse solo un altro complotto, meno radicale e più sotteso di uno statuto rivalutato per la nostra società, un “Made in China” (comunismo capitalistico dell’economia mista come controllo delle nascite) o molto probabilmente una forma di esaltazione autoritaria di identità corporativiste che vede docenti e politici o comunque gente i potere, alloggiarsi in una identitaria Cina de no’altri (mi scuso se do l’idea di far parlare le minoranze linguistiche, un certo Pasolini chiamava questa pratica poetica “mimesi dal basso”), una “China made in Italy”… dall’in- segnamento, alla politica, alla coscienza sociale.
Un teatro che va ben oltre al rivolgersi alle masse, al parlare a nome di.., o altro di cui mi vuole far carico nel suo testo. Rincaro: un teatro che è di guerra, ma senza coltelli, fatta di sorrisi, beffardi complimenti inesauribili con i quali (anche il più sciatto in coscienza se ne accorge) si cela il paradosso dei paradossi.
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Un eccellere nella schizofrenia più inquietante, celebrata da fonti che si dicono autorevoli, in realtà autoreferenziali. È un magiare sterco e defecare ghigni biechi, che nulla ha di tantrico o caritatevole. In questo tipo di sorriso, sempre disponibili (fin troppo ovviamente), si vede tutta la paura trincerata dalla sicurezza che si possa mettere sotto accusa il proprio altisonante posto privilegiato. Nel mio dire non ci sono prese di posizione se non quella schietta dell’ammonimen- to, anche a me stesso, che per vivere bisogna mangiare (capacità soprannaturali a parte) e, tutti, avere i mezzi per farlo. Avere i mezzi significa cambiare il presente, cambiare il presente impone che dobbiamo forzatamente abolire privilegi e caste, al di là di ogni schieramento politico o detto tale.
Significa, inoltre, che è il linguaggio la verga con cui si
continua da millenni a dispensare priorità a priori e, tra queste, sempre è
rifugiata la priorità all’uguaglianza. Spero di non esser causa di rivalse per
le parole espresse così mondanamente ma vorrei che tutti, anche le masse, pur
utopisticamente, potessero avere i mezzi per elevarsi dal calderone dello
squilibrio sociale, “China made in Italy”
permettendo.
Lei, invece, non dovrebbe “creare filosofia” abolendo la figura del cattedratico della filosofia che pretende di raccontarci la verità, o di svelarci come si dovrebbe o non si dovrebbe fare tal’una cosa piuttosto che un’altra?
Lei, invece, non dovrebbe “creare filosofia” abolendo la figura del cattedratico della filosofia che pretende di raccontarci la verità, o di svelarci come si dovrebbe o non si dovrebbe fare tal’una cosa piuttosto che un’altra?
Francesco Panizzo
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