Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo |
HOLY MOTORS
Un film di Léos Carax Recensione di Daniel Montigiani Un momento dello svolgimento della prima parte del film: l’enigmatico e
misterioso pro-tagonista Monsieur Oscar (Denis Lavant), qui travestito
da una sorta di ibrido fra un mostro e un clochard, si aggira con furore grottesco e de-
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menziale fra le tombe di un sontuoso ed elegante cimitero del centro storico di Parigi, strappando a morsi fiori dalle tombe e, volontariamente e non, spaventando gli ignari passanti e visitatori. A un certo punto giunge su un piccolo set di moda, dove una modella (Eva Mendes), con fare scultoreo e circondata da una piccola ma fitta presenza di spettatori curiosi, si offre all’obiettivo di un fotografo che, con accanito e inusitato entusiasmo, le ripete continuamente “Beauty! Beauty! Beauty!”. Ma Monsieur Oscar (qui, appunto, con le sembianze di un mostro/barbone), non appena cerca di avvicinarsi alla modella, viene improvvisamente notato dal fotografo che, con un concitato entusiasmo simile a quello che aveva mostrato fino a quel momento verso la modella, comincia a fotografarlo ripetutamente esclamando “It’s so weird! It’s so weird” (“è così strano! È così strano!”).
Tuttavia, questa pellicola assolutamente memorabile di Carax può suscitare due “tipologie” di questa esclamazione: da una parte, infatti, ci saranno quegli spettatori (probabilmente i più) iche, di fronte a un film così sontuosamente anomalo, lo accuseranno di eccessiva stranezza, mentre altri (forse quelli più interessati alle possibilità-ufo che il cinema può permettere di esplorare) sosterranno che quella sviscerata da Carax è una stranezza che si distingue, rigeneratrice, benefica, se non addirittura geniale. Difatti, che si rimanga fastidiosamente perplessi o entusiasti di fronte a questo oggetto cinematografico così anomalo, sembra assolutamente chiaro come Carax, volutamente o no, sia stato capace di fare “cinematograficamente qualcosa” di così diverso, proveniente da un tale altrove che la maggior parte dei film girati nell’ultimo decennio (se non addirittura di più) sembrano risultare esteticamente vecchi, o meno interessanti di quello che sembravano, fin troppo appartenenti alle leggi limitate e limitanti della terra, tanto che, al confronto, sembrano salvarsi dal punto di vista estetico solo certi film di Greenaway, di Lynch, di Von Trier, di Piavoli, di Weerasethakul, di Sokurov, nonché il Matthew Barney di Cremaster.
La storia parla di qualcosa mentre in realtà, non sembra parlare di
niente, se non delle ipotesi del cinema, delle sue potenzialità, dei
suoi generi, della sua sperimentazione. Monsieur Oscar, nel giro di una
giornata, viene condotto su una bianca limousine a nove misteriosi
“appuntamenti” di lavoro assai sui generis. A ognuno
di questi appuntamenti, con tranquillità assolutamente bunueliana,
Monsieur Oscar si traveste da un personaggio diverso.
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La bizzarria della storia, a tratti quasi distante e dall’aspetto altero, viene dal regista liberata nell’arena dello schermo con una affascinante nonchalance, quasi con aplomb britannico, tanto che alcuni spettatori potrebbero pensare che uno dei fini e delle speranze principali del regista sia quello di non piacere agli altri, di rimanere narrativamente ed esteticamente antipatico. Carax dà infatti da subito il via a una sontuosa riflessione sul cinema, probabilmente almeno di due tipi: la prima è una riflessione sul cinema più intima, ovvero più personale (che ha a che fare direttamente con lui, con la sua storia, con la sua situazione), la seconda, invece, sembra riguardare più il cinema tout court. Nel primo caso, infatti, tramite la prima sequenza – che vede lo stesso Carax che, in pigiama, in una camera da letto, si accorge di un passaggio che, quasi magicamente, lo conduce direttamente nella sala affollata di un cinema – il regista, metaforicamente, sembra rappresentare il suo – finalmente – ritorno al cinema dopo una pausa di ben tredici anni (l’ultimo lungometraggio, infatti, Pola X, è del 1999 e risale invece al 2008 l’episodio Merde del film collettivo Tokyo!). Nel secondo caso, invece, Carax sembra aver voluto girare questo film anche e soprattutto per fare della filosofia, della teoria, ricordandoci la sua capacità, di regista postmoderno, di mettere in campo la realtà della finzione, la finzione della realtà. Anche in questo caso, tutto ciò sembra avvenire tramite il funzionamento magico della metafora, a partire dallo stesso titolo – Holy motors – che, se nella realtà effettiva del film si riferisce al nome del parcheggio delle limousine che portano il protagonista in giro per lavoro, potremmo anche considerare i “sacri motori” come un riferimento al meccanismo stesso della macchina cinema, ovvero alla “sacralità” (= bellezza) della macchina da presa, del suo funzionamento e delle possibilità che offre.
E, a tal proposito, ci sono due elementi presenti nel film (all’inizio frammenti rapidi di pellicole delle “origini” del cinema di Marey e Muybridge e, nel finale, due scimmie che vivono nella casa del protagonista) che fanno pensare direttamente al concetto principale che pulsa alla base di uno dei testi più importanti del teo-
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rico/filosofo Bela Balasz, L’uomo visibile (1924). Essenzialmente, in questo saggio, Balasz sostiene che il mezzo cinematografico, dopo secoli basati solo ed esclusivamente sulla parola scritta, può mostrare alle persone tutta il potenziale espressivo di cui un corpo umano, di cui la presenza umana è capace, grazie anche e soprattutto al dettaglio e al primo piano. La presenza umana, insomma, grazie al cinema, può finalmente mostrarsi in tutta la sua bellezza, anche e soprattutto inedita e misteriosa. Nel film di Carax, dunque, durante i primi secondi del film, vengono mostrate immagini del cinema delle “origini” e, alla fine, quasi come in una Ringkomposition, le scimmie, ovvero le origini dell’uomo. Dunque, similmente alla teoria principale di Balasz, Carax sembra voler dire che l’uomo non è veramente esistito fino all’avvento del cinema, che l’uomo ha iniziato a essere veramente “esplorabile” soltanto dalla nascita del cinematografo.
Mentre, dunque, alcuni critici continuano a chiedersi se questo film di Carax sia semplicemente una stravaganza di lusso o un capolavoro, sarà tuttavia innegabile che siamo di fronte indubbiamente a un “cinema del Poi”, a un “cinema del Dopo”.
Mentre, dunque, alcuni critici continuano a chiedersi se questo film di Carax sia semplicemente una stravaganza di lusso o un capolavoro, sarà tuttavia innegabile che siamo di fronte indubbiamente a un “cinema del Poi”, a un “cinema del Dopo”.
Daniel Montigiani
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