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Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo e V. Vacca |
Francesco Tassara: fotografo istintuale della verità viva
di Alessandro Rizzo Francesco Tassara è un giovanis- simo artista a tutto tondo: ed è qui che la definizione calza a pennello con un percorso produzionale che lo vede fo- tografo, videomaker, documentarista, nonché aver avuto molti riconoscimen-
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ti umani e di notevole apprezzamento in campo artistico e culturale da parte di un variegato pubblico. Lo abbiamo intervistato sotto la “veste” di fotografo: ma è una veste che è giustamente contaminata dalle altre sfaccettature che interessano la sua complessità estetica, tecnica e poetica. Siamo rimasti particolarmente impressi dai suoi ritratti, quelle visioni soggettive che danno anima e che fanno oltrepassare in un’indagine introspettiva attenta e puntuale il soggetto che viene immortalato. Francesco si può dire, come ogni interessante artista, abbia più “ossessioni” che lo rendono poliedrico e dinamico allo stesso momento: fotografa l’oggettistica scartata, quasi dandone un’immortalità ultraterrena; oggetti di vita quotidiana, quasi dandone una liricità che li rende superlativi; fotografa istantanee di viaggi, ricavando lo spirito sociale e culturale di momenti di esistenze collettive.
“Il pensiero si forma, e nello stesso istante è già finito. Se cerchi di ripensarlo ritorna, ma è diverso, è un altro. Solo le immagini restano, vere in tutto, anche nella loro condanna di essere in- consistenti. Tu puoi persino arrivare a crederle non vere, invece sono vive”. Scrivi sul tuo sito uffi- ciale, www.francescotassara.it. Che cosa intende Francesco artista e Francesco uomo con questa definizione?
Questa frase l’ho sentita pronunciare dal protagonista di un vecchio film italiano semisconosciuto ma molto bello e interessante, “UN DOPPIO A METÁ“. Il protagonista è un fotografo che sta realizzando un reportage sociale per le strade di Roma, e ne è talmente assorbito che la sua ricerca visiva (e di significati) arriva a condizionare la sua vita e i suoi pensieri personali. Mi rispecchio in questa considerazione e l’ho fatta mia nel momento in cui sento che un’im-magine catturata in un istante può diventare un pensiero fermo, un perpetuo stimolo di riflessione che, al di là del tempo e delle distanze, al di là del fatto che sia apprezzata o meno, al di là della sua efficacia o apparente in- consistenza, quel che si vede all’interno dell’inquadratura continua a far vivere quel momento, ed è un atto d’amore e di rispetto. È la magia e la potenza della fotografia, e anche del video poi, quella di fermare il tempo, ma solo una porzione che si sceglie, tutto il resto no, ed è anche una cosa misteriosa.
Francesco sei anche videomaker, documentarista, hai vinto diversi premi tra l’arte cinematogra- fica e quella fotografica: quale nesso ci sono tra queste due discipline artistiche e c’è una differenza poetica e metodologica tra le due figure di artisti, Francesco fotografo e Francesco videomaker?
“Il pensiero si forma, e nello stesso istante è già finito. Se cerchi di ripensarlo ritorna, ma è diverso, è un altro. Solo le immagini restano, vere in tutto, anche nella loro condanna di essere in- consistenti. Tu puoi persino arrivare a crederle non vere, invece sono vive”. Scrivi sul tuo sito uffi- ciale, www.francescotassara.it. Che cosa intende Francesco artista e Francesco uomo con questa definizione?
Questa frase l’ho sentita pronunciare dal protagonista di un vecchio film italiano semisconosciuto ma molto bello e interessante, “UN DOPPIO A METÁ“. Il protagonista è un fotografo che sta realizzando un reportage sociale per le strade di Roma, e ne è talmente assorbito che la sua ricerca visiva (e di significati) arriva a condizionare la sua vita e i suoi pensieri personali. Mi rispecchio in questa considerazione e l’ho fatta mia nel momento in cui sento che un’im-magine catturata in un istante può diventare un pensiero fermo, un perpetuo stimolo di riflessione che, al di là del tempo e delle distanze, al di là del fatto che sia apprezzata o meno, al di là della sua efficacia o apparente in- consistenza, quel che si vede all’interno dell’inquadratura continua a far vivere quel momento, ed è un atto d’amore e di rispetto. È la magia e la potenza della fotografia, e anche del video poi, quella di fermare il tempo, ma solo una porzione che si sceglie, tutto il resto no, ed è anche una cosa misteriosa.
Francesco sei anche videomaker, documentarista, hai vinto diversi premi tra l’arte cinematogra- fica e quella fotografica: quale nesso ci sono tra queste due discipline artistiche e c’è una differenza poetica e metodologica tra le due figure di artisti, Francesco fotografo e Francesco videomaker?
Ho avuto diverse soddisfazioni sia in campo fotografico che cinematografico, alcune confesso inaspettate. Non cre- do ci sia molta differenza, perché sono entrambi due modi di mettere in scena, di rappresentare, semplicemente di “inquadrare” così, quando scatto una fotografia o quando faccio l’inquadratura per un video per me è la stessa cosa, il taglio è lo stesso. Cambia solo quando in fotografia uso il taglio verticale, quasi esclusivamente per i ritratti, ma soli- tamente la maggior parte delle mie foto sono orizzontali, perché amo il taglio cinematografico, mi da proprio una soddisfazione e un senso di appagamento estetico che non so nemmeno descrivere. Quando scatto e quando giro io vivo, mi sento di vivere di più, realizzo qualche cosa, mi es- primo, lascio una traccia del mio passaggio che rimane nel tempo, e allora sono felice. Che cosa vuoi comunicare con l’arte fotografica? La verità. O almeno ci provo. Cercare un attimo signi-ficativo, che sia degno di essere fermato e raccontato. O anche ila ibellezza, iche inon ista necessariamente in un tra- |
monto o in un bel paesaggio, genere fotografico che non mi ispira. La verità. O almeno ci provo. Cercare un attimo significativo, che sia degno di essere fermato e raccontato. O anche la bellezza, che non sta necessariamente in un tramonto o in un bel paesaggio, genere fotografico che non mi ispira. Poi sai penso che il fotografo, quando è libero di lavorare come crede, a meno che non debba eseguire un lavoro su commissione che deve essere quello, che deve dare quegli esatti risultati che si aspetta il committente, tenda ad essere egoista, a produrre cioè secondo un istinto personale frutto del suo stato d’animo o del proprio intimo percorso. La fotografia per me infatti non è solo lavoro, ma soprattutto ricerca, necessità personale d’espressione. Lavoro con la fotografia ma anche col video e la scrittura, e ognuno di questi mezzi sono opportunità espressive che mi servono per vivere e che non mi fanno sentire relegato in un ruolo come “fotografo”, “regista” o “scrittore”, ma in tutti e in nessuno.
Quali sono le reazioni del pubblico e a quale pubblico vuoi rivolgerti?
Spesso le reazioni del pubblico sono le più disparate e inaspettate, nel senso che c’è sempre qualcuno che trova spunti di riflessione o osservazioni che l’autore non immaginava, e questo è molto importante per proseguire, per far nascere nuove idee. Non ho preferenze su un certo tipo di pubblico, anzi più è eterogeneo e più mi fa piacere, non tanto per un fatto di fama che potrei ottenere, ma perché mi piace quando la cultura riesce a raggiungere chiunque, dall’anziano borghese al ragazzino cresciuto in strada. Ti faccio un esempio: alla proiezione di un mio documentario girato a La Spezia, nella sala del cinema c’erano dal prefetto ai senzatetto, passando per insegnanti, scultori, ragazzini, anziani… ed è stato molto bello, in quel momento si era tutti uguali, tutti accomunati dall’apprezzamento per la stessa cosa.
Forse questo fa parte della mia apertura, non so. Sono cresciuto in un ambiente piccolo-borghese, perbenista, ma amo stare in strada e raccontare la strada. Mi capita anche nell’arco della stessa giornata di fotografare dai concerti di musica classica ai piccoli delinquenti notturni. Sono due cose diverse, eppure è sempre lo stesso mondo. Leggo con piacere le tragedie classiche greche come ascolto con piacere i ragazzi che improvvisano freestyle seduti contro qualche saracinesca. Tutto è bello, tutto è vita, e penso che tutto serva.
Quali sono le reazioni del pubblico e a quale pubblico vuoi rivolgerti?
Spesso le reazioni del pubblico sono le più disparate e inaspettate, nel senso che c’è sempre qualcuno che trova spunti di riflessione o osservazioni che l’autore non immaginava, e questo è molto importante per proseguire, per far nascere nuove idee. Non ho preferenze su un certo tipo di pubblico, anzi più è eterogeneo e più mi fa piacere, non tanto per un fatto di fama che potrei ottenere, ma perché mi piace quando la cultura riesce a raggiungere chiunque, dall’anziano borghese al ragazzino cresciuto in strada. Ti faccio un esempio: alla proiezione di un mio documentario girato a La Spezia, nella sala del cinema c’erano dal prefetto ai senzatetto, passando per insegnanti, scultori, ragazzini, anziani… ed è stato molto bello, in quel momento si era tutti uguali, tutti accomunati dall’apprezzamento per la stessa cosa.
Forse questo fa parte della mia apertura, non so. Sono cresciuto in un ambiente piccolo-borghese, perbenista, ma amo stare in strada e raccontare la strada. Mi capita anche nell’arco della stessa giornata di fotografare dai concerti di musica classica ai piccoli delinquenti notturni. Sono due cose diverse, eppure è sempre lo stesso mondo. Leggo con piacere le tragedie classiche greche come ascolto con piacere i ragazzi che improvvisano freestyle seduti contro qualche saracinesca. Tutto è bello, tutto è vita, e penso che tutto serva.
Perché utilizzi la tecnica del bianco e nero, che tende a re- gistrare, appunto, un tono di ricordo e di memoria storica per qualcosa che è avvenuto, che è stato immortalato, ma che se si ripresenterà, seppure simile in un futuro, sarà dif- ferente? Non lo so. Mi piace il bianco e nero, certe volte lo trovo più vivo dei colori, più forte. È come se mi aiutasse a “vedere” di più un’immagine. Come procedi quando produci la fotografia, ossia quali sono le fasi che intercorrono tra l’idea del soggetto che vuoi fotografare e lo scatto stesso: come riesci a cogliere l’espres- sione naturale del soggetto che possa esprimere ciò che tu vuoi attraverso la fotografia esprimere? |
La maggior parte delle volte è solo istinto, non c’è preparazione. Porto quasi sempre con me con me la macchina fotografica, e se non ce l’ho uso il telefono, anche perché ormai con le nuove tecnologie si possono catturare belle immagini con qualsiasi cosa. Non è tanto importante per me la perfezione estetica di una fotografia, sebbene sia importante sui lavori su commissione, ma la sua forza. Non sono un conservatore, penso sia bene sfruttare ogni mezzo a disposizione ai fini di un buon risultato. C’è stato un periodo, quando iniziai a fare le prime foto qualche anno fa, che scattavo quasi in continuazione. Poi questo mi ha dato un senso di angoscia, di inutilità. Allora mi sono imposto dei limiti: io devo fotografare (o scrivere o riprendere in video) solo quando serve, per raccontare solo l’essenziale, così da non permettere che un impulso solamente estetico prevalga sui contenuti. Quindi se c’è una pre- parazione nella produzione di una fotografia c’è, in me, a livello mentale, concettuale. Poi lo scatto in sé, l’in- quadratura, sono solo l’istinto di quel momento.
La tua produzione fotografica si incentra molto sulla ritrattistica: è una scelta di convenienza, di piacere, di ossessione o, semplicemente, estetica?
Amo le storie, e ogni persona è una storia. Ogni volto è una storia. Quando poi si ha la fortuna di incontrare volti e storie forti, diventa un’ossessione, un piacere, e sì, anche estetica, questa narrazione, questa ricerca. Per tanto tempo i miei primi lavori erano un po’ come nature morte, ermetismi concettuali che se ci ripenso mi viene l’angoscia da tanto erano inutili e fini a sé stessi… Ho dovuto e voluto abbattere un muro di timidezza e conoscere le persone, confron- tarmi con loro, riproporre a loro stesse i ritratti e le storie che costruivo con loro, e tutto ciò è un continuo divenire che non può che crescere, ed è una miniera infinita, che permette una crescita interiore e umana non indifferente.
Ogni ossessione crea arte se esplicata e se comunicata attraverso la composizione: quale è, o quali sono le ossessioni di Francesco Tartara fotografo?
La tua produzione fotografica si incentra molto sulla ritrattistica: è una scelta di convenienza, di piacere, di ossessione o, semplicemente, estetica?
Amo le storie, e ogni persona è una storia. Ogni volto è una storia. Quando poi si ha la fortuna di incontrare volti e storie forti, diventa un’ossessione, un piacere, e sì, anche estetica, questa narrazione, questa ricerca. Per tanto tempo i miei primi lavori erano un po’ come nature morte, ermetismi concettuali che se ci ripenso mi viene l’angoscia da tanto erano inutili e fini a sé stessi… Ho dovuto e voluto abbattere un muro di timidezza e conoscere le persone, confron- tarmi con loro, riproporre a loro stesse i ritratti e le storie che costruivo con loro, e tutto ciò è un continuo divenire che non può che crescere, ed è una miniera infinita, che permette una crescita interiore e umana non indifferente.
Ogni ossessione crea arte se esplicata e se comunicata attraverso la composizione: quale è, o quali sono le ossessioni di Francesco Tartara fotografo?
A seconda di ogni fase di vita, di ogni stagione, di ogni età, le os- sessioni forse cambiano, così come gli interessi, gli impulsi, gli amori…
Ma se proprio dovessi dare un nome all’ossessione che mi spinge a cercare e a creare, direi l’amore, e anche la bellezza. Ogni scatto, ogni in- quadratura, sia in foto che in video, ma anche ogni parola scritta, sono un atto d’affetto e una ricerca della bellezza, anche là dove sembra non esserci. È come se vivessi sempre innamorato. Le prossime tue opere che hai intenzione di proporre e le tue prossime esposizioni? Sto girando due nuovi film documentari, uno che sarà pronto prima dell’estate, tutto girato in un’aula scolastica dove gli alunni raccontano le loro storie e le loro vite, e un altro sulla comunità dominicana che vive in Italia, quindi ancora storie personali, ritratti in video, riprese in case, in locali, nel tempo libero. |
Qualcuno, sentendomi parlare dei miei lavori, mi ha detto sorridendo che non riesco a farmi gli affari miei, e forse è vero, sono molto curioso, ma in realtà in tutte queste storie, in tutte queste persone che incontro, forse sto cercando me stesso. E spero che il pubblico che le vedrà possa fare altrettanto. Per quanto riguarda progetti di fotografia sto selezionando materiale per un progetto sui ritratti in strada.
Francesco fotografi anche i viaggi: quello in Africa e quello per la città di Roma. Parli, giustamente di “puri intimi pensieri che viaggiano liberi, senza alcuna pretesa di coerenza”. In che cosa si espri- mono e come si esplicano attraverso la fotografia i puri pensieri liberi?
I pensieri sono complicati da esprimere, spesso non ci si riesce nemmeno a voce… La fotografia penso che sia la reazione di un istinto. Ad esempio se uno mi tira un pugno cerco di schivarlo, se ho sete bevo, e allo stesso modo quando si forma un pensiero o piuttosto una suggestione, scatto. Il problema dopo potrebbe essere di comprensione o meno da parte di chi guarda la foto. Se troppo intima si rischia di essere incompresi, di aver fatto solo un esercizio personale. Il reportage “Il viaggio” ad esempio, che sono tutte foto fatte a Roma nell’arco di diversi mesi, è una riflessione sul tema del partire, dell’andar via, ma anche del tornare, della nostalgia di un luogo altrove, del distacco da qualcuno. Le fotografie erano accompagnate da alcuni testi scritti lì a Roma. Era un lavoro fotografico a metà tra il diario personale. L’esperienza fotografica in Africa invece è stata una delle più forti e affascinanti che mi siano capitate. Lì più che il viaggio c’è proprio il racconto di un altro mondo. Tra tutte le foto che ho fatto laggiù solo due o tre sono paesaggi, tutto il resto sono persone o comunque scene di vita. E non era neanche tanto una scelta ma anche lì una necessità, un istinto. Non riuscivo a scattare una foto se non c’era qualcuno nell’inquadratura, e soprattutto desideravo che i soggetti guardassero nell’obbiettivo. Volevo instaurare un dialogo, abbattere un muro, far sì che chi vedesse quelle persone avesse l’impressione di trovarsi di fronte a loro.
Francesco fotografi anche i viaggi: quello in Africa e quello per la città di Roma. Parli, giustamente di “puri intimi pensieri che viaggiano liberi, senza alcuna pretesa di coerenza”. In che cosa si espri- mono e come si esplicano attraverso la fotografia i puri pensieri liberi?
I pensieri sono complicati da esprimere, spesso non ci si riesce nemmeno a voce… La fotografia penso che sia la reazione di un istinto. Ad esempio se uno mi tira un pugno cerco di schivarlo, se ho sete bevo, e allo stesso modo quando si forma un pensiero o piuttosto una suggestione, scatto. Il problema dopo potrebbe essere di comprensione o meno da parte di chi guarda la foto. Se troppo intima si rischia di essere incompresi, di aver fatto solo un esercizio personale. Il reportage “Il viaggio” ad esempio, che sono tutte foto fatte a Roma nell’arco di diversi mesi, è una riflessione sul tema del partire, dell’andar via, ma anche del tornare, della nostalgia di un luogo altrove, del distacco da qualcuno. Le fotografie erano accompagnate da alcuni testi scritti lì a Roma. Era un lavoro fotografico a metà tra il diario personale. L’esperienza fotografica in Africa invece è stata una delle più forti e affascinanti che mi siano capitate. Lì più che il viaggio c’è proprio il racconto di un altro mondo. Tra tutte le foto che ho fatto laggiù solo due o tre sono paesaggi, tutto il resto sono persone o comunque scene di vita. E non era neanche tanto una scelta ma anche lì una necessità, un istinto. Non riuscivo a scattare una foto se non c’era qualcuno nell’inquadratura, e soprattutto desideravo che i soggetti guardassero nell’obbiettivo. Volevo instaurare un dialogo, abbattere un muro, far sì che chi vedesse quelle persone avesse l’impressione di trovarsi di fronte a loro.
Chiedevo sempre se potevo fotografare qualcuno, e là dove non potevo comunicare a voce facevo sì che si vedesse che stavo per scat- tare, in modo che il soggetto o i soggetti mi guardassero. Ricordo una cosa buffa, una mattina ero in un mercato in una piccola città.
Vidi dall’altro lato della strada un ragazzo fermo seduto su una motoretta. Non so cosa mi abbia colpito, se il volto, la canottiera spor- ca, la vecchia moto.. insomma che senza pensarci e senza nemmeno guardare attraversai la strada, piena di auto e camion, gli andai davan- ti, feci l’inquadratura e gli scattai una foto, così senza dirgli niente, all’improvviso. Poi gliela feci vedere, lui sorrise. Tornai indietro e non lo vidi più. Però ora avrò sempre quell’immagine, e mi piace. Questo è l’istinto, il pensiero, la necessità, o se vuoi l’ossessione. Anche “le cose” di quotidiano utilizzo sono oggetti che ven- gono destrutturati e rivisitati attraverso il tuo occhio fotogra- fico tali da renderle da “anonime” realtà “ironiche”: come at- |
traverso la fotografia riesci a rendere questo passaggio fattibile e realizzabile?
Una certa ironia mi è sempre appartenuta. Ma forse più che ironia direi desiderio di provocazione, in antitesi verso tutta quella serie di fotoamatori ma anche professionisti che stanno intere giornate appostati per fotografare un tramonto o il mare o un bel paesaggio di montagna. Nulla in contrario per carità, però ho come una forma di divertito distacco da tutto ciò, su cui mi è capitato soprattutto di riflettere quando ho fatto qualche anno fa un’esposizione dal titolo “Interni”, fotografando oggetti o dettagli degli stessi nelle case dove entravo, da amici o parenti. Occasione in cui, presentando il lavoro, dissi che trovavo più cose da fotografare in una stanza che dalla cima di un monte. Anche questa ricerca sugli oggetti, che però appartiene a un periodo passato del mio percorso fotografico, era una riflessione sulla figura umana, sull’intimo quotidiano delle persone, rappresentate non attraverso i loro ritratti ma attraverso le loro cose. Quindi mi attraeva la disposizione dei libri nella libreria, il riflesso di luce attraverso le tende, la crepa nel muro, le sedie…
Una certa ironia mi è sempre appartenuta. Ma forse più che ironia direi desiderio di provocazione, in antitesi verso tutta quella serie di fotoamatori ma anche professionisti che stanno intere giornate appostati per fotografare un tramonto o il mare o un bel paesaggio di montagna. Nulla in contrario per carità, però ho come una forma di divertito distacco da tutto ciò, su cui mi è capitato soprattutto di riflettere quando ho fatto qualche anno fa un’esposizione dal titolo “Interni”, fotografando oggetti o dettagli degli stessi nelle case dove entravo, da amici o parenti. Occasione in cui, presentando il lavoro, dissi che trovavo più cose da fotografare in una stanza che dalla cima di un monte. Anche questa ricerca sugli oggetti, che però appartiene a un periodo passato del mio percorso fotografico, era una riflessione sulla figura umana, sull’intimo quotidiano delle persone, rappresentate non attraverso i loro ritratti ma attraverso le loro cose. Quindi mi attraeva la disposizione dei libri nella libreria, il riflesso di luce attraverso le tende, la crepa nel muro, le sedie…
Infine parliamo di “scARTI” progetto fotogra- fico che ha visto una tua personale: possiamo dire che in questo contesto la fotografia abbia esaurito totalmente la sua funzione di ricele- brare la memoria storica e il ricordo, oppure va oltre a questa finalità? “scARTI” è stata una personale che ho allestito sotto invito, perché era una due giorni dedicata agli oggetti che solitamente trascuriamo ma che in realtà potreb- bero avere una vita propria se non addirittura una certa poesia d’esistere. Allora lì avevo cercato, tra alcune mie immagini, qualcosa di assolutamente essenziale, quasi ai limiti dell’assenza di significato, per rappresentare ciò. C’era quindi la foto di una vecchia borchia di auto- mobile arrugginita, la gabbia di un canarino, una televi- sione abbandonata… Non amo più molto questi vecchi lavori sulle cose perché è una fase che mi sono lasciato alle spalle. Mi interessano le persone. Alessandro Rizzo
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