Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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Rivista d'arte diretta da
F. Panizzo e V. Vacca |
Kotoko L’estetica del doppio Un film di Shinya Tsukamoto di Mariella Soldo Cineporto di Bari. Odore di nuovo e tanta gente. Tutti in attesa del
regista Shinya Tsukamoto, per la rassegna Registi fuori dagli schermi,
organizzata da Apulia Film Commision, Uzak e Caratteri Mobili,
patrocinata dal C.U.T.A.M.C, – Centro Universitario per il Teatro, per
le Arti visive, la Musica, il Cinema dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.
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Tsukamoto arriva, con un’aria spensierata. Indossa un cappello e tiene
stretta una borsa, che un po’ mi ha fatto sognare. Cosa poteva mai
contenere? Cosa porta nella sua borsa, in giro per il mondo, uno dei più
grandi registi mondiali? All’incontro intervengono Luigi Abiusi (Uzak,
Filmcritica) e Bruno Roberti (Fata Morgana, Filmcritica). Il dialogo con
Tsukamoto è durato più di un’ora. Si è parlato dei suoi primi
esperimenti fotografici e dei suoi ultimi lavori, da Tetsuo a Kotoko. I critici hanno rilevato l’importanza del corpo nei film del regista nipponico e della sua ricerca portata all’estremo: «Guardare
i film di Tsukamoto è come entrare in una sorta di materia che ci
aggredisce e che appartiene alla macchina quanto alla filogenesi umana»,
sottolinea Roberti. Molte sono le domande affiorate durante l’incontro:
Che cosa significa essere umani, oggi? L’anima ha un corpo?
Quest’ultima sembra interessare particolarmente Tsukamoto, che ci parla
della sua esperienza di voler oltrepassare la materia per cercare
l’invisibile:
«Alcuni studiosi dicono che l’anima si trovi nel cervello. Co- sì, ho assistito a delle vivi- sezioni. Forse, cercando fino in fondo alla carne, troverò la ris- posta a questa grande do- manda, ma la risposta non ar- rivò mai. A un certo punto, ho assunto un atteggiamento di ri- nuncia. Mi chiedevo come fosse possibile fare l’autopsia del- l’anima.» Il regista nipponico condivide con il pubblico anche i suoi pensieri adolescenziali, di quando andava a scuola e si sen-
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sentiva sofferente perché non poteva muoversi e liberare il proprio corpo. Per ovviare, nella sua mente immaginava mostri che comparivano su un grande schermo. Oggi, ogni volta che deve scrivere una sceneggiatura, quello schermo riappare. Alla domanda «che cosa sogna Tsukamoto?», l’artista risponde: «mostri». Dopo il dibattito, è stato proiettato Kotoko, in lingua originale con i sottotitoli in italiano. Kotoko è il nome di una donna che vede doppio, nel senso che ha due percezioni del reale, in cui quella violenta sembra avere il sopravvento. Il suo disagio mentale aumenta con lo stress dovuto alla cura ossessiva nei confronti di suo figlio, che le viene tolto dai servizi sociali e affidato a sua sorella. Nel frattempo, la donna incontra uno scrittore, interpretato dallo stesso regista, che l’aiuta a riprendersi dalla sua malattia. Quando l’uomo scompare, senza una spiegazione, Kotoko ricade e sprofonda.
L’ossessione segna il ritmo del film. Rimandi, suoni martellanti,
notizie di violenza in tv, il pianto del bambino, gli incubi, gli
sdop- piamenti. Tutto ritorna, non per riprendere o continuare, ma per
in- sistere e annientare. La bellezza del film risiede nella
mancanza di giudizio, da parte del regista, e nella volontà di voler
esplorare l’in- dicibile. Grazie a una sorprendente tecnica di riprese e
di montag- gio, ci sembra di esplorare la mente di Kotoko, subirne i corto
cir- cuiti, i vuoti, le sospensioni. Memorabile una delle scene finali, in cui la stanza del figlio diventa di cartone, idopo che Kotoko uccide il
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piccolo, per paura del male che può riservargli il futuro.
Lo avrà ucciso per davvero o sarà un altro sdoppiamento di personalità? Cosa resta di questo tormento? Di questo sangue che scorre, nella violenza di giorni quotidiani, sempre uguali? Cosa resta? Il bianco puro, il bianco puro del nulla. di Mariella Soldo |
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