Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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Rivista d'arte diretta da
F. Panizzo |
Il cecchino
Un film di Michele Placido di Daniel Montigiani Il Cecchino si basa sulla continua, sorprendente e
tesa “lotta” fra l’ispettore Mattei (Daniel Auteuil) e una banda di
rapinatori famosa per la violenza su cui basano i loro colpi e,
soprattutto, per l’aiuto che ques- ta riceve da un inizialmente misterioso
cecchino (Mathieu Kassovitz).
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Un giorno, però, a causa di una segnalazione anonima, il cecchino viene scoperto e arrestato dalla polizia. Tuttavia il cecchino dispone ancora di qualche risorsa che utilizza per fuggire di prigione e per vendicarsi.
Anche se quest’opera dimostra un’abbondante/strabordante presenza di fatti, è comunque possibile estrarre dal suo contenitore narrativamente ben pieno alcune caratteristiche fondamentali che la sostengono alla base, ovvero una secca, diretta sgradevolezza (in particolar modo per quanto riguarda la rappresentazione dei fatti e della violenza, ma anche per la maggior parte dei rapporti in molti casi spietati fra i personaggi) e un forte senso di grigio, dato soprattutto dalla somma di vari, tetri elementi visivi.
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Il film di Placido, infatti, si caratterizza per un grigio così forte, diffuso da sembrare un’entità compatta, onnipre-sente, col desiderio di non lasciare scampo, consistente, toccabile, solida: abbiamo il grigio dato dalla fotografia livida e fastidiosamente opprimente, il grigio della naturalezza tipicamente plumbea del cielo di Parigi, il grigio dei palazzi (sia quello “sontuoso” del quartiere del Louvre che quello più “modesto” e squallidamente anonimo di zone più peri- feriche), ma anche il grigio di certi interni, che, per implacabile intensità, sembra fare silenziosamente il verso a quel- lo degli esterni.
Un’altra caratteristica - che, in realtà, potremmo chiamare “sotto-caratteristica” o caratteristica secondaria – del film è quella di una continua, irregolare e fastidiosa oscillazione fra momenti interessanti (o, comunque, tentativi da parte del regista di dare luogo a momenti rilevanti) e altri che, purtroppo (per Placido, ma anche per la visione dello spettatore) farebbero gola ad un qualsiasi catalogo cinematografico di un triste deja-vu.
È ad esempio indubbiamente interessante il fatto che Placido, tramite una certa scelta di ripresa degli ambienti e l’opprimente, severa fotografia faccia in modo che lo spettatore quasi non noti la dif- ferenza fra le zone più turistiche, più belle e ricche di Parigi e altre più periferiche e di scarso valore, andando così ben presto a far sembrare la maggior parte del film un unico, soffocante ambiente, dove la violenza, la tensione e la corruzione sembrano riuscire a rendere la capitale francese un largo volto rigidamente e lungamente deturpato.
La sparatoria che avviene in una delle primissime scene, ad esempio, ha luogo proprio nella centralis- sima Parigi, eppure, a causa della tensione orchestrata dalla regia, della fotografia che diffonde un grigio insistente e delle scelte di ripresa, lo spettatore non sembra fare molto caso alla bellezza del luogo, anzi: gli stessi, splendidi palazzi che circondano i poliziotti e i rapinatori, grazie a questo insieme di opzioni di stile, sembrabrano emanare
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un intenso senso di decadimento. Tuttavia, come già accennato, a Placido capita (spesso) anche di proporre una visione della città pretenziosamente scontata: in uno dei primissimi momenti della pellicola, attraverso un banale sincrono esplicito (ovvero, in questo caso, un forte, teso rumore che introduce improvvisamente l’“arrivo” di un’immagine) viene mostrata una Parigi dall’alto di un cielo grigissimo, ad occhio d’aquila, con la macchina da presa collocata dietro la parte più alta della Tour Eiffel, una visione assolutamente già vista e perfettamente “anti-nuova”.
Ma i momenti e le visioni meno interessanti, purtroppo, si estendono anche altrove: si assiste, ad esempio, a delle scene da “videoclip maledetto” (come nella breve sequenza in cui, tramite un rapido montaggio ellittico a base di scat- ti luminosi e rumorosi, viene mostrato il dettaglio di uno dei rapinatori che si inietta del liquido nella pancia), ma anche a piccole situazioni diegeticamente vecchie e convenzionali (come l’avvocatessa del cecchino che, ferita a san- gue in casa, strisciando a fatica sta per raggiungere il telefono per chiedere aiuto ma viene improvvisamente bloccata dal piede dell’aggressore), tutte “sonnolente caratteristiche” che sembrano distruggere un qualsiasi tentativo di opera veramente personale e originale.
Ma i momenti e le visioni meno interessanti, purtroppo, si estendono anche altrove: si assiste, ad esempio, a delle scene da “videoclip maledetto” (come nella breve sequenza in cui, tramite un rapido montaggio ellittico a base di scat- ti luminosi e rumorosi, viene mostrato il dettaglio di uno dei rapinatori che si inietta del liquido nella pancia), ma anche a piccole situazioni diegeticamente vecchie e convenzionali (come l’avvocatessa del cecchino che, ferita a san- gue in casa, strisciando a fatica sta per raggiungere il telefono per chiedere aiuto ma viene improvvisamente bloccata dal piede dell’aggressore), tutte “sonnolente caratteristiche” che sembrano distruggere un qualsiasi tentativo di opera veramente personale e originale.
Daniel Montigiani
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