Elliott Erwitt ama molto il cinema. E lo si vede nei suoi scatti e nelle sue narrazioni fotografiche che diventano espressione di una storia, di tante storie: di percorsi umani, ma lui stesso dice di non “vedere l’essere umano” nelle sue opere, forse perché i personaggi ritratti sono visti nell’espressione più cinica e alienata.
In questa situazione si può registrare una certa attitudine verso la ricerca intima che contraddistingue scenari contrastanti e complessi delle pieghe imperscrutabili dell’animo umano. Cani, bambini, madri svegliate nel sonno dal pianto del proprio neonato, gatti, amanti che si baciano riflessi da uno specchietto retrovisore di un’automobile, due ragazzi che si abbracciano con un uomo che salta a loro fianco, librandosi nell’aria come un ballerino metropolitano: vediamo nella produzione di Erwitt una certa tendenza a creare scenari contrastanti di una vita comune che ci sfugge nella profondità dell’animo profondo. Diverse sono le città che Erwitt frequenta e vive nella propria esistenza: nasce a Parigi, si trasferisce a Milano, dove frequenterà le scuole e da cui dovrà scappare con la famiglia all’avvento delle leggi razziali, ritorna a Parigi per, poi, trasferirsi oltreoceano a New York, dove vive tutt’ora. All’anagrafe Elio Romano Ervitz, l’artista dirà della sua poetica “non ho preconcetti, scatto immagini così come le vedo”, suggellando come ponesse divertimento nel suo lavoro, oltre che passione e dedizione, tale da creare ironicamente quei contesti, che maggiormente rivelano, tramite una giusta apposizione delle luci, naturali e dirette, e calibrature delle ombre delle immagini ipertestuali, e che ci inducono a considerare altri scenari, portandoci ad assaporare nuove visioni che si alimentano di realismo oggettivistico, nuove poetiche narrative composite e differenti.
Il momento più importante della sua vita lo ha quando sarà chiamato da Capa nel 1953 a fare parte ufficialmente della prestigiosa Magnum. Immortalerà diversi scenari in cui si incentrano i rapporti interpersonali dei componenti di differenti famiglie, che in gran parte partono da quella propria, avrà sei figli e cinque nipoti alla fine, che iniziò a fotografare nel 1953 in quell’ambientazione molto intima e intrisa di affetto e sentimento.
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Traspaiono, così, gli sguardi umani triangolari palpabili e tangibili tra il gatto, un neonato nudo sul letto, la sua prima figlia, ed Ellen, sua moglie, distesa e sdraiata in tutta la sua ammirazione e attenzione amorosa verso la propria bambina. È, quasi, un momento di elevazione e di sospensione da un contesto temporale e situazionale la scena immortalata da Elliott, tanto da essere considerata come universale e adattabile a ogni altro tipo di visione. La celebrazione del focolare domestico, privo di patetico familismo e fuori dalle convenzioni, ci porta ad assaporare sguardi e volti intensi e vivi, non conformisti e conformabili, estranei da quel dagherrotipo a cui noi di solito cerchiamo di collocarli: vediamo gli occhi stupiti e un po’ introspettivi, molto seri, della propria figlia Amy, immortalata su una limousine seduta vicina all’intramontabile Andy Warhol, nel 1986, sempre a New York; vediamo anche la piccola Ellen fotografata a fianco del mitico Edward Steichen tale da comunicare quella tensione dovuta all’intensità e alla particolarità del momento. I contesti comunicano con i personaggi nelle opere di Erwitt: niente è disfunzionale ma, bensì, inserito in un rapporto strutturale tale da rendere la persona parte integrante dell’ambiente, quasi riprendendo un significato etimologico antico e ancestrale di questa parola. Allo stesso tempo le figure si astraggono nella loro centralità in un messaggio estetico e poetico unico, come fossero elementi narrativi autonomi, pur collimanti e sintonici con il contesto reale: il caos, che Erwitt amava molto tradurre in forme fisse e ferme, era il luogo preferito per tradurre grandi produzioni, lasciando lo spettatore immaginare un ante e un post di un presente visibile e tangibile.
Ed è così che vediamo bambini sul seggiolone urlare, altri che osservano smarriti, una madre alle prese coi fornelli dimostrante una certa stanchezza fisica e una forza d’animo inoppugnabile, una moglie che culla il proprio figlio con sapienza e amore tanto da portare alla memoria scenografie analoghe. |
L’Occidente si pone contro i tanti angoli del pianeta dove l’opulenza e, nello stesso tempo, l’alienazione asfittica di questa parte del globo si traducono in sofferenze esistenziali e, in primo luogo, nella perdita di quell’innocenza e ingenuità dei bambini, soggetti che proseguono e inseguono l’autore nella sua ossessione creativa artistica. Vediamo, così, i figli di un Afgha-nistan, di un Messico, delle favelas brasiliane che hanno vissuto, nonostante la propria tenera età, le asperità della vita, una condizione di cui non sono causa e che subiscono passivamente, in cui si parla già di sopravvivenza e necessità di sopraffazione in una guerra, reale o sociale, di tutti contro tutti. Il darwinismo sociale che miete vittime e che vede soprattutto i più piccoli soggetti alle drammatiche conseguenze è spietato e non guarda in faccia a nessuno: quasi un’antropomorfizzazione della disperazione si legge negli sguardi di chi ti osserva costernato e lacerato, comunicando con trasparenza e una certa diffidenza ciò che prova nel suo intimo. Erwitt non scade mai nel patetismo narrativo né nel semplice reportage: la sua produzione è narrativa lirica e unisce tecnica, esperienza, spe- rimentazione con una sicurezza in ciò che vuole vedere e ciò che vuole portare a vedere, scoprire, indagare, conoscere e interpretare. Basta girare con una macchina fotografica e poi scattare quando si è toccati dal soggetto interessante: è qui la filosofia in cui si riassume la poetica di Erwitt che ha saputo dare un quadro generale e complesso dell’umanità che va dal cinismo spietato di giovani soldati americani all’assenza dell’innocenza di bambini che si puntano la pistola alla tempia fino a giungere, infine, alle madri che cullano con amore e affetto i propri figli.
Lui stesso dirà che la commedia e la tragedia sono molto collimanti e prossimi come generi. Erwitt ama il cinema, adora Fellini, si ispira a Jaques Tatì, apprezza molto Buster Keaton e il suo ironico punto di vista sulle miserie dell’umanità. Erwitt si autodefinisce un curioso che scatta e sa prendere l’obiettivo del suo interesse estetico senza che questi lo sappia o se ne accorga, prelevandone l’essenza reale: dai bambini che fanno i toreri al musicista che suona il pianoforte, dallo spettatore davanti a Guernica al Museo Reina Sofia di Madrid, fino a giungere agli epici scatti della sensuale Marylin Monroe, che liquiderà dicendo che la risaltante bellezza derivava da una sua forte fotogenia, all’affascinante e sorridente Che Guevara. Erwitt è ironico ed è leggero nella sua produzione e rileva negli scatti una sua attenzione ai particolari e a una lettura introspettiva che va oltre al dato oggettivo materico per proiettarsi in un’analisi interiore e interna, introspettiva intensa.
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Passa, così, dai profili ai paesaggi l’autore parigino naturalizzato statunitense tanto da dare una dimensione onirica, metafisica, impercettibile, ierocratica, che ci induce a proiettarci in dimensioni panoramimiche nuove, inconsce, personali e collettive. Erwitt ha fotografato gli scenari drammatici e molto alienanti dei regimi totalitari dell’ex Unione Sovietica, disegnandone le contraddizioni e rilevandone le complessità sociali tanto da creare narrazioni puntuali e attente. Spontaneità, naturalezza, immediatezza, riflessione introspettiva metafisica, istantanee che regalano e donano quella sensazione di unicità e di originalità, che tende a scandagliare dinamiche umane con una genuinità elevata e un senso estetico universale che ci conducono a pensare a nuovi scenari, a nuove prospettive, a nuove dimensioni. La sua poetica è storica perché vive di frammenti di vita e di esistenze che si incrociano e si confrontano, si incontrano e confluiscono.
Alessandro Rizzo
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