Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
Argo Un film di Ben Affleck 4 novembre 1979, Teheran. Un gruppo di militanti della rivoluzione islamica prende in ostaggio alcuni dipendenti dell’ambasciata statunitense. Tony Mendez (Ben Affleck) escogita un curioso stratagemma per liberarli: giungere a Teheran come membro di una finta troupe cinematografica. |
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Argo sembra essere una dimostrazione audiovisiva della discreta mancanza di talento (almeno in questo caso) dell’attore Ben Affleck (personaggio che, già di per sé, almeno fino a questo momento, non può certo essere considerato un luminoso punto di riferimento del cinema d’autore o in qualche modo artistico). L’abbastanza visibile mancanza di idee che percorre quasi tutta questa pellicola potrebbe far pensare, ad esempio, a Le Idi di marzo, altro “film-nulla” di un altro famoso attore statunitense che, come Affleck, dopo qualche anno di recitazione, ha deciso di inciampare nella regia, ovvero di George Clooney (“divo” che, anche in questo caso come Affleck, è forse interessante ricordarlo, non rappresenta esattamente uno degli emblemi dell’alto cinema). Nella maggior parte dei suoi momenti questa pellicola sembra presentare una tale mancanza di interesse e un palese senso di Non Riuscito che quasi si viene costretti ad analizzarla attraverso il filtro della banalità.
Difatti, la presenza di tale caratteristica - la non invidiabile banalità, appunto - sembra essere spesso così ingombrante e manifestarsi “mirabilmente” sotto più punti di vista, che potremmo adesso procedere a parlarne attraverso la creazione di quello che potremmo chiamare “alfabeto della banalità”. |
Fare ovvero un breve ma allarmante ed emblematico elenco di alcuni punti fondamentali del film che, con triste significatività, mostrano l’accanita - e, si spera, involontaria - banalità delle scelte stilistiche e narrative di Ben Affleck.
A) La scelta della scelta della musica extradiegetica: si tratta in questo caso di un tipo di banalità che si palesa addirittura già da prima dell’arrivo dell’immagine. La musica che accompagna i titoli di testa è di un’insignificatività risaputa: una serie di note per evocare contemporaneamente tensione e tristezza che hanno una funzione anticipatrice, prolettica. La tensione-tristezza di tale musica, sembra voler anticipare infatti la tensione e tristezza che, in buona parte di questo film, sono delle sensazioni madri.
B) La banalità della scelta del montaggio, piuttosto evidente soprattutto nella sequenza d’apertura. In essa, la tragicità dei fatti storici narrati da una pesante voce over attraverso immagini di vario tipo (inquadrature vere e proprie, animazione, fermo immagine, fotografie) viene espressa attraverso un montaggio di una concitatezza scontata, che quasi, paradossalmente, non sembra in realtà creare alcun tipo di tensione.
C) La banalità di voler rappresentare la stridente dicotomia fra il teso orrore di alcuni fondamentali eventi storici (rappresentati in questo caso dal rapimento di molti ostaggi all’interno dell’ambasciata americana a Teheran) e la purezza del mondo dell’infanzia. Nella prima parte del film, infatti, a un campo totale di un televisore che mostra l’evento pubblico e drammatico del rapimento presso l’ambasciata segue una nuova sequenza all’interno della quale viene subito mostrato il mezzo primo piano di un bambino teneramente disteso sul letto della propria camera (il figlio del protagonista): una scelta di rappresentazione degli opposti questa di Affleck non certamente nuova né originale, soprattutto in molto cinema americano. Ma la discreta inutilità del film Affleckiano non è, purtroppo, nemmeno dotata di quella scorrevolezza che ci si aspetterebbe da un film di intrattenimento.
A) La scelta della scelta della musica extradiegetica: si tratta in questo caso di un tipo di banalità che si palesa addirittura già da prima dell’arrivo dell’immagine. La musica che accompagna i titoli di testa è di un’insignificatività risaputa: una serie di note per evocare contemporaneamente tensione e tristezza che hanno una funzione anticipatrice, prolettica. La tensione-tristezza di tale musica, sembra voler anticipare infatti la tensione e tristezza che, in buona parte di questo film, sono delle sensazioni madri.
B) La banalità della scelta del montaggio, piuttosto evidente soprattutto nella sequenza d’apertura. In essa, la tragicità dei fatti storici narrati da una pesante voce over attraverso immagini di vario tipo (inquadrature vere e proprie, animazione, fermo immagine, fotografie) viene espressa attraverso un montaggio di una concitatezza scontata, che quasi, paradossalmente, non sembra in realtà creare alcun tipo di tensione.
C) La banalità di voler rappresentare la stridente dicotomia fra il teso orrore di alcuni fondamentali eventi storici (rappresentati in questo caso dal rapimento di molti ostaggi all’interno dell’ambasciata americana a Teheran) e la purezza del mondo dell’infanzia. Nella prima parte del film, infatti, a un campo totale di un televisore che mostra l’evento pubblico e drammatico del rapimento presso l’ambasciata segue una nuova sequenza all’interno della quale viene subito mostrato il mezzo primo piano di un bambino teneramente disteso sul letto della propria camera (il figlio del protagonista): una scelta di rappresentazione degli opposti questa di Affleck non certamente nuova né originale, soprattutto in molto cinema americano. Ma la discreta inutilità del film Affleckiano non è, purtroppo, nemmeno dotata di quella scorrevolezza che ci si aspetterebbe da un film di intrattenimento.
Il film, infatti, soprattutto nella prima parte è caratterizzato da un tale eccesso di caos e pacchiana, agitata mescolanza di informazioni che non sempre si riesce a comprendere veramente quello che sta succedendo, finendo così, paradossalmente, per assistere a un “action/thriller movie” di abissale pesantezza.
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Nonostante questo breve ma forte “alfabeto della banalità” che fa di questo film di Affleck una sorta di meteorite del nulla cinematografico, è giusto e addirittura possibile cercare alcuni punti positivi all’interno del film. Si tratta, infatti, ad esempio, di una pellicola che, nonostante i suoi ingombranti difetti, non è mai patinata, grazie soprattutto alla scelta di una fotografia che ricorda molti thriller americani degli anni Settanta. Si tratta inoltre di un film onesto sia dal punto di vista politico sia sul versante della critica ad Hollywood: qualunque troupe, anche la più improvvisata e sgangherata, può girare un film pagato dai milioni di una major.
Ad ogni modo, dopo avergli concesso la gentilezza di questo commento (vagamente) positivo, non può che risulta- re davvero bizzarra, tristemente eccessiva ed incongrua la scelta di conferire a questo film addirittura l’Oscar 2013 come miglior film. Se, infatti, in più occasioni ormai i premi Oscar sono stati proprio gettati in modo immeritato, in questo caso questo conferimento sembra essere veramente troppo.
Ad ogni modo, dopo avergli concesso la gentilezza di questo commento (vagamente) positivo, non può che risulta- re davvero bizzarra, tristemente eccessiva ed incongrua la scelta di conferire a questo film addirittura l’Oscar 2013 come miglior film. Se, infatti, in più occasioni ormai i premi Oscar sono stati proprio gettati in modo immeritato, in questo caso questo conferimento sembra essere veramente troppo.
Daniel Montigiani
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