Apparizioni rubrica diretta da Francesco Panizzo
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Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo e V. Vacca |
Da Una cena elegante
alla piazza di un mercato: Scelte possibili tra Walser e la vita. Fa eco alla claritas – la vita, la singolare immanenza dello stato delle cose – deleuziana – la ripetizione agambeniana riguardo le esistenze silenziose. Scarti poco produttivi che conoscono un vagare liminare rispetto ai tempi di una collettività che procede infernalmente e con indifferenza. I custodi di “una vita che non può essere separata dalla sua forma, una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso”.
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Esistono storie, vicende letterarie nelle quali la dissoluzione individuale pervade, slabbrandone i contorni, la vita di tanti autori. Se buttiamo l’occhio alle cartelle cliniche che segnano gli ultimi ventisei anni della vita di Robert Walser, la storia risulta slabbrata, liquida: il tempo trascorso prima nell’istituto per malattie mentali di Waldau, vicino Berna, poi ad Herisau. In questo tempo, il paziente Robert Walser attende a un lavorio infinito, indif-ferente e taciturno, “esprimendosi di malavoglia”.
I referti medici stilano la diagnosi: catatonia. L’ombra scura della patologia getta un’ombra sulla scelta di Walser: l’espressione distratta, il rischio di scegliere il silenzio. In un “accoppiamento giudizioso” – come piacerebbe a Gadda – il rifiuto di Walser incontra le descrizioni della voce narrante che si interroga sui sibillini dinieghi di Bartleby lo scrivano, protagonista dell’omonimo racconto di Hermann Melville. È come se, in un assurdo e mortale gioco delle parti, l’osservatore impersonale e smarrito che guarda la realtà da fuori, avesse dismesso i panni del Wakefield di Hawthorne per immedesimarsi nel destino imperscrutabile che porta Bartleby a rifiutare ostinatamente ogni contatto col mondo, confinandosi nella solitudine del suo tavolo da scrivano.
Il tavolo, la scrivania di Bartleby, occupa lo spazio fin troppo pieno dello studio legale di Wall Street. Bartleby è raccolto, discreto, non nasconde alcun segreto agli occhi dell’avvocato che ne racconta l’impossibile singolarità. La singolarità di una vita che conosce poche parole. E che resiste. La resistenza è un processo silenzioso e singolare allo stesso modo del meccanismo narrativo che Melville mette all’opera. Prima di avere alle sue dipendenze Bartleby, l’avvocato ha degli scrivani singolari, che tuttavia riesce a dominare, con strategie di comprensione, riuscendo a raggiungere la loro intimità. L’avvocato esercita su di loro un potere dolce, attua mediazioni, tanto da dichiararsi capace di fronteggiare le eccentricità. Chi sceglie lo fa con discrezione: è straordinariamente composto, impeccabile, dedito in maniera assoluta. Fino a un certo punto:
I referti medici stilano la diagnosi: catatonia. L’ombra scura della patologia getta un’ombra sulla scelta di Walser: l’espressione distratta, il rischio di scegliere il silenzio. In un “accoppiamento giudizioso” – come piacerebbe a Gadda – il rifiuto di Walser incontra le descrizioni della voce narrante che si interroga sui sibillini dinieghi di Bartleby lo scrivano, protagonista dell’omonimo racconto di Hermann Melville. È come se, in un assurdo e mortale gioco delle parti, l’osservatore impersonale e smarrito che guarda la realtà da fuori, avesse dismesso i panni del Wakefield di Hawthorne per immedesimarsi nel destino imperscrutabile che porta Bartleby a rifiutare ostinatamente ogni contatto col mondo, confinandosi nella solitudine del suo tavolo da scrivano.
Il tavolo, la scrivania di Bartleby, occupa lo spazio fin troppo pieno dello studio legale di Wall Street. Bartleby è raccolto, discreto, non nasconde alcun segreto agli occhi dell’avvocato che ne racconta l’impossibile singolarità. La singolarità di una vita che conosce poche parole. E che resiste. La resistenza è un processo silenzioso e singolare allo stesso modo del meccanismo narrativo che Melville mette all’opera. Prima di avere alle sue dipendenze Bartleby, l’avvocato ha degli scrivani singolari, che tuttavia riesce a dominare, con strategie di comprensione, riuscendo a raggiungere la loro intimità. L’avvocato esercita su di loro un potere dolce, attua mediazioni, tanto da dichiararsi capace di fronteggiare le eccentricità. Chi sceglie lo fa con discrezione: è straordinariamente composto, impeccabile, dedito in maniera assoluta. Fino a un certo punto:
Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: “Avrei preferenza di no”. I would prefer to not, formula che ripetuta scivola in un atto di creazione. Un atto di creazione implica la resistenza del possibile e del nuovo. |
La formula stessa cadenza il piano narrativo come una presa di posizione che è insieme leggera e forte. Perché rifiuta il come e non il cosa. Sceglie. E in questo atto crea, predispone una via di fuga. “Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno in un ufficio di lettere smarrite, a Washington, dal quale sarebbe stato d’un tratto dismesso a motivo di un cambiamento nell’amministrazione. [...] Lettere smarrite, lettere morte! Non si direbbe che tutto ciò parli di uomini morti? Pensate ad un uomo che, per natura o per sventura, sia propenso al pallido pensiero dell’irreparabile; potrebbe un’altra occupazione essere più adatta ad acuire quel pen- siero, più del maneggiare queste lettere smarrite, e accatastarle per darle alle fiamme? Giacché, ogni anno, cataste se ne bruciano, di simili lettere. Dalle pieghe di un foglio a volte il pallido estrae un anello, e il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; estrae una banconota inviata con la più sollecita carità, e chi avrebbe dovuto soccorrere più non mangia né soffre; un perdono per chi morì disperando; una speranza per chi morì senza speme; buone nuove per chi fu annientato da perpetue sventure. Inviate per occorrenze della vita, queste lettere urgo- no alla morte.”
Ah, Bartleby! ah, umanità! Nella più perfetta impersonalità si raggiunge l’“inumana, imperturbabile superficialità” di cui parlava Benjamin. Anche la realtà di Walser sottende ad un solitario annullamento della propria persona, di fronte agli altri, di fronte a se stesso. In totale mancanza di intenzione, un’esistenza vagante da una cena elegante a una piazza di mercato.
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Da un viaggio in pallone alla sede di un ufficio polveroso. Esile, ripetuta esistenza simile al foglio bianco di Bartleby lo scrivano. Se l’Io viene messo tra parentesi per costruire uno spazio mimetizzabile, segreto, nell’anonimia sociale contemporanea, si impara a respirare come Walser “nelle parti inferiori dell’esistenza”. Non ci si impone in una società che rende tutto equivalente. Come vorrebbe Barthes si raggiunge lo “zero magnifico, rotondo come una palla”, perché solo un progressivo eclissarsi dell’Io, e con esso il definitivo abbandono di qualunque preteso governo sulla realtà, ci porterà finalmente a diventare semplice occhio che guarda. Volenti o nolenti, siamo comunque tutti ugualmente impiegati della stessa “potente concezione collegiale”. Erede naturale della tradizione cinica del clochard virtuoso, Walser traccia un elogio ininterrotto e incondizionato dell’anominato. E quello che fa sulla pagina scritta, lo raddoppia nell’esistenza: frequentando a Berlino un corso specializzato per servitori, lavorando come commesso di libreria e impiegato di banca, come domestico in un castello. Masochismo? Piacere della sofferenza? Tutto al contrario. Il soggetto walseriano, ribaltando il nostro comune sentire, ritiene che proprio nella provvisorietà, nella inca- pacità di giudizio, nella assoluta inettitudine, risiede il migliore viatico per smarrirsi felicemente nell’evanescente spettacolo del mondo: in quel presente inesplicabile, in quella successione di istantanee che quotidianamente ci si offre e di cui è vano e insensato cercare connessioni, rimandi simbolici, significati. Come vano e insensato è apporre un giudizio di valore, sia esso morale o estetico. “Lei conosce le birrerie alpine?”, chiede il narratore a un ipotetico lettore. “Forse proverà una volta a farci una capatina. Anche se vede la cassiera mangiar pane e salsiccia, non deve tornarsene via disgustato, bensì riflettere che è la cena che viene in tal modo consumata. La natura fa valere ovunque i suoi diritti. Dove regna la natura vi è sempre dignità”. Un’immensa chiacchierata. Il nostro successivo commento, al contrario, è soltanto un’immensa, ininterrotta “chiacchiera”. Nella celebre passeggiata walseriana, si manifesterà compiutamente questo irresistibile Sì ad ogni immagine di vita. Questo aprirsi senza residui all’infinita possibilità dell’incontro.
Perché se il mondo è soprattutto Caso, proprio nella passeggiata si misura meglio come l’esistenza sia soltanto un succedersi traboccante di situazioni, occasioni, impressioni. “Io sto sulla terra: questa è la mia posizione.
Le ore scherzano con me, e io scherzo con loro”. Nessuna superiore sapienza redime da questa inarrestabile casualità. Nessuna eccezionalità imperitura può valere quanto la commovente caducità delle cose: |
“non si usa parlare di giorni o notti medie, e neanche di una natura media. Forse che ciò che è medio non è anche quanto vi è di più solido e migliore? Ne faccio volentieri a meno di giorni e settimane geniali, o addirittura di un Padreterno eccezionale”.
In una straordinaria paginetta intitolata Mercato, travolto dall’abbondanza e dall’allegria di merci e luci; tra un banchetto di carne che risplende purpurea dai ganci, uno di pesci che nuotano in larghi mastelli pieni d’acqua, e uno di frutta dove le arance “scherzano in sfarzosi mucchi gialli”, il protagonista sosta inebriato davanti a un gruppo di donne magnificamente grasse. “Figure umane grossolane che ci ricordano proprio la terra, la campagna con la sua vita e il suo lavoro. E Dio stesso, che certo non ha neanche lui un corpo esageratamente bello”. Perché “Dio è il contrario di Rodin”. Ammirare il mondo nel suo stato germinale: come se fosse appena stato creato lui, e l’osservatore che lo contempla. Scrittore “puerile” per eccellenza, Walser riesce proprio in questo, che è il più straordinario degli esercizi: coniugare l’anima di un adulto con gli occhi stupefatti di un bambino. “Mi pareva che fosse eternamente inutile esser buoni ed eternamente impossibile nutrire delle oneste intenzioni, e che tutto fosse assurdo e noi tutti fossimo soltanto dei bambini piccoli, abbandonati fin da principio alle assurdità e alle impossibilità. E subito dopo tutto andava di nuovo bene, ed io continuai il cammino, con l’ anima inesprimibilmente felice, attraverso la bella e pia oscurità”. E nelle conversazioni tra Walser e Seelig durante le loro passeggiate domenicali sull’Appenzell quando era già ricoverato ad Herisau, l’annullamento ha un crescendo drammatico: anche lo scrittore deve scom- parire, facendo distruggere i propri libri ancora inediti. A lungo, molto a lungo, gli riesce questa pratica conturbante. Ma nel 1929 la sua particolare “lotta per la vita” appare compiuta. Il grado zero è stato raggiunto. Il foglio bianco di Bartleby.
L’ultima formula pronunciata. E lo scrittore svizzero finisce in manicomio, “il convento dell’epoca moderna”.
In una straordinaria paginetta intitolata Mercato, travolto dall’abbondanza e dall’allegria di merci e luci; tra un banchetto di carne che risplende purpurea dai ganci, uno di pesci che nuotano in larghi mastelli pieni d’acqua, e uno di frutta dove le arance “scherzano in sfarzosi mucchi gialli”, il protagonista sosta inebriato davanti a un gruppo di donne magnificamente grasse. “Figure umane grossolane che ci ricordano proprio la terra, la campagna con la sua vita e il suo lavoro. E Dio stesso, che certo non ha neanche lui un corpo esageratamente bello”. Perché “Dio è il contrario di Rodin”. Ammirare il mondo nel suo stato germinale: come se fosse appena stato creato lui, e l’osservatore che lo contempla. Scrittore “puerile” per eccellenza, Walser riesce proprio in questo, che è il più straordinario degli esercizi: coniugare l’anima di un adulto con gli occhi stupefatti di un bambino. “Mi pareva che fosse eternamente inutile esser buoni ed eternamente impossibile nutrire delle oneste intenzioni, e che tutto fosse assurdo e noi tutti fossimo soltanto dei bambini piccoli, abbandonati fin da principio alle assurdità e alle impossibilità. E subito dopo tutto andava di nuovo bene, ed io continuai il cammino, con l’ anima inesprimibilmente felice, attraverso la bella e pia oscurità”. E nelle conversazioni tra Walser e Seelig durante le loro passeggiate domenicali sull’Appenzell quando era già ricoverato ad Herisau, l’annullamento ha un crescendo drammatico: anche lo scrittore deve scom- parire, facendo distruggere i propri libri ancora inediti. A lungo, molto a lungo, gli riesce questa pratica conturbante. Ma nel 1929 la sua particolare “lotta per la vita” appare compiuta. Il grado zero è stato raggiunto. Il foglio bianco di Bartleby.
L’ultima formula pronunciata. E lo scrittore svizzero finisce in manicomio, “il convento dell’epoca moderna”.
Viviana Vacca
Riferimenti bibliografici:
H. Melville, Bartleby lo scrivano, a cura di G. Celati, Feltrinelli, Milano 1991.
G. Deleuze, G.Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet 1999.
R. Walser, Una cena elegante, trad. di Aloisio Rendi, Quodlibet, Macerata 1999.
H. Melville, Bartleby lo scrivano, a cura di G. Celati, Feltrinelli, Milano 1991.
G. Deleuze, G.Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet 1999.
R. Walser, Una cena elegante, trad. di Aloisio Rendi, Quodlibet, Macerata 1999.
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