Rapiti da
Divina follia Articolo di Enrico Pastore :«E chi, senza follie di Muse, al palazzo regale di poesia s'avvicina, convinto di diventar poeta per forza d'arte, inutile, lui e la sua poesia, di fronte alla poesia dei folli, la poesia del savio ottenebrata scompare». Platone Fedro :«...di tanto, dicono gli antichi con testimonianza concorde, follia da Dio proveniente, è assai più della saggezza d'origine umana». Platone Fedro :«...dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita...» Alda Merini La pazza della porta accanto |
Partiamo dalle origini, dal tempo della metamorfosi quando sulla terra si incontravano gli dei e gli eroi, quando la conoscenza spesso era rivelazione. All’alba dell’Occidente i Greci sapevano che quando la vita diventa d’un tratto più turgida e significante, quando il sapore delle cose assale l’anima e la riempie lasciandola balbettante, quando a seguito di questo intensificarsi tutto appare illuminato e pien di senso, non la nostra mente irraggiava potenza, ma erano gli dei che prendevano possesso delle nostre facoltà. Era rapimento e invasione. A volte stupro. Di dei e di ninfe. Questa follia o mania era per Platone indispensabile al poeta (ma anche all’amante!) che altrimenti non avrebbe potuto entrare nel palazzo delle Muse (o nelle grazie dell’amata/o).
In Omero protagonista non è Achille ma l’ira che lo anima e che “infiniti lutti addusse agli Achei”. L’ira che agisce su Achille lo spinge alle azioni che lo allontanano dalla battaglia e provocano tutte le vicende degli ultimi anni di guerra sotto le mura di Troia. Ma non solo Achille è agito. Molti i personaggi nell’Iliade e nell’Odissea, per non parlare della tragedia, che agiscono non per propria volontà ma perché ispirati o agiti dagli dei. Nel fenomeno, bisogna sottolinearlo, vi è una sorta di violenza: perdere se stessi, essere posseduti da forze tanto devastanti lascia esausti, violentati. Bisogna saper accogliere la divinità se non si vuole essere distrutti. L’invasione può essere letale, può condurre a tutti gli esiti: dall’illuminazione al delitto. Padroneggiare l’esaltazione è indispensabile, perché infiniti pericoli si addensano quando si entra in contatto con una conoscenza che trascende l’umana ragione. È un perdersi per ritrovarsi, non un perpetuo cadere nell’abisso. Il pericolo è comunque costantemente presente. I Greci sapevano che l’atto creativo non era una competenza della logica e della ragione ma un fatto oscuro, pericoloso che accostava l’uomo a forza di difficile controllo, e che padroneggiare tale stato conduceva a inaspettati tesori. Il pericolo era la Hybris e la fine di Icaro è il destino per chi si brucia le ali. L’atto creativo è affine all’esperienza sciamanica. Lo sciamano per diventare tale e entrare in diretta comunicazione con dei e antenati, soffre gravi malattie, mentali e fisiche, il suo corpo viene smembrato, bollito, ricucito, ricomposto, i suoi organi lavati, scambiati, potenziati. Il corpo dello sciamano e la sua mente vengono assaliti come in un’infezione (la peste di Artaud) e solo dopo essere sopravvissuto a un viaggio e a una guerra con spiriti e demoni, lo sciamano riconquista se stesso. Ma non solo gli sciamani anche i mistici, continuamente balbettanti dopo l’excessus mentis che li portava fuori di sé a veder cose che l’umana ragione non può comprendere. Dante lo sapeva bene, lui che ha attraversato i regni dei morti, per giungere in un paradiso che lo lascia senza parole e lo obbliga a inventare una nuova lingua: inciela, s’inmia, s’india, s’incinqua, s’inluia, s’infutura, e dove non può con le parole ricorre a paragoni arditi e dove anche questi si dimostrano impotenti e significar per verba non si poria: L’essempio basti/ a cui esperienza grazia serba!. Questi viaggi, queste esperienze sono sempre un progressivo perdersi per acquisire conoscenza. Sempre meno io, sempre più mondo. Il vuoto che riempie e ti conduce dove non avevi previsto. Un abbandono che necessita di un controllo senza il quale non c’è ascesi ma solo caduta in un inferno senza fondo. Anche il portatore della maschera, deve farsi da parte affinché le forze che animano la maschera e a lui eccedenti possano farsi evidenti. Perché la divinità si presenti il portatore deve farsi piccolo, scomparire, nulla si deve sapere di lui. L’identità è tabù. È la maschera che ospita le potenze che non si paleserebbero se colui che la veste non si fa da parte. Il portatore è strumento nelle mani del dio. Il contatto con il divino è rischioso, a volte rovinoso, bisogna sempre sottoporlo a pratiche e discipline di controllo e a volte tutto questo non basta. È questo che inquieta delle maschere e degli attori che le portano: il loro essere al confine tra l’umano, il divino e il demoniaco, essere abitanti di un limen ambiguo. Non a caso Hans Castorp dichiara il suo amore a Madame Chauchat proprio la sera di carnevale, ebbro, in altra lingua, in un territorio non suo, rapito da forze sconosciute. Anche lui rapito dalle ninfe. E in fondo anche l’amore è una forma d’arte. Nel Fedro platonico Socrate parla dei quattro tipi di mania proprio partendo da un discorso su Amore, in un luogo caro a Pan e alle ninfe, in un meriggio d’estate, in un ora calda e pericolosa perché abitata dalle forze di cui si parla e non a caso tutto parte dal ricordo di un mito d’amore che parla di un ratto e nasconde una caduta: il mito di Borea e Orizia. Questo perdersi non è solo di danzatori, attori, amanti e sciamani ma è anche del pittore d’icone. Secondo l’abate Florenskij se l’icona deve rivelare le verità celesti, se deve ospitare le sante essenze, l’autore deve trasformarsi in un strumento nelle mani di Dio. L’atto del dipingere è del monaco ma il vero autore è Dio che in lui agisce: è un diventare pennello e colore e tela. Solo in quel caso l’icona diventa potente. Se traspare l’intenzione d’artista non vi è altro che vanagloria, sfoggio d’abilità, un osceno mostrarsi che a nulla porta se non a un vuoto plauso. Ma la pratica di essere agiti per entrare in contatto con forze a noi eccedenti siano esse le regole di natura o delle divinità è perseguita anche nella modernità del ventesimo secolo, non solo nell’antichità. Certo in modi meno “primitivi” e più “civilizzati” ma sempre pratiche atte a una perdita di sé. Thomas Mann, lui che ha sempre pensato l’atto creativo come qualcosa affine alla malattia, in quel libello di guerra che sono le considerazioni di un impolitico, auspica per lo scrittore un qualcosa di molto simile, quella che chiama la visione stereoscopica delle cose, che permette a colui che scrive di nascondersi nelle diverse e opposte opinioni dei personaggi, quel poliedrico baloccarsi con la verità: per far apparire il mondo tutte le verità devono essere compresenti. E come esempio cita Strindberg, ma avrebbe potuto semplicemente dire Shakespeare, colui che più di tutti si nasconde nelle sue opere tanto che potrebbe anche non essere mai esistito. E ancora Cage costantemente teso a trovar sistemi per bypassare la volontà del compositore affinché potesse emergere la complessità dei suoni dell’esistenza. Non era il suo un manifestare un’idea informativa ma un lasciarsi agire da forze altre, trascendenti la sua volontà affinché lo portassero alla scoperta e non a una dimostrazione. Anche lui era un rapito dalle ninfe ma anziché cercare stati alterati di coscienza si abbandonava a una pratica assidua di disciplina che lo esponesse all’azione del caso e non della sua volontà, né alla volontà degli esecutori che si trovavano a eseguire le sue partiture. Non era la sua arte una manifestazione di un punto di vista ma un processo volto alla sperimentazione e alla scoperta della perpetua metamorfosi del creato. Un po’ come Piero Manzoni che mette un piedistallo al mondo: opera completa che non ha bisogno della mano dell’uomo. E così Carmelo Bene che si fa attraversare dal testo, diventa attore-macchina, solo voce che si fa materia solida affinché emerga il suono e non il significato. Per tutti costoro l’arte è un perdersi e non è un fatto di comunicazione ne lo deve essere. L’arte è uno stato che presenta dei pericoli, perché con essa e attraverso essa si entra in contatto con i fondamenti del mondo. Ci si può perdere come diventare saggi. L’arte è una pratica in cui ci si gioca tutto compresa la vita e la sanità mentale, perché l’arte si occupa dell’essere, dell’emersione delle possibilità dell’essere delle sue verità se ve ne sono. L’artista non è colui che presenta le sue idee sul mondo. Di opinionisti ve ne sono anche troppi a ingorgare televisione e giornali. L’artista deve presentare il mondo, lasciarlo emergere così com’è, sarà il mondo stesso a parlare senza intermediari. E per far questo occorre lasciarsi rapire dal mondo, farsi da parte, perdere quella volontà ossessiva di autorialità, lasciarsi agire, lasciarsi amare dalle ninfe. L’Art Brut, per tutti questi motivi, ma soprattutto per essere la forma di espressione artistica che più si avvicina al pericolo insito nella prassi dell’arte, è un esempio fulgido di questo rapimento e dei rischi che comporta. L’artista alienato, a volte inconsapevole eppure a contatto con una forma oscura ma viva di verità. La sua diversità ci parla dei rischi e delle vertigini della vita. Nell’Art Brut si palesa tutta la nostra illusione di sicurezza e ci ricorda che il cielo può caderci addosso da un momento all’altro, per dirla con le parole di Artaud, a sua volta artista alienato e suicidato dalla società. Verità e pericolo, rapimento e illuminazioni. Quanti artisti in questo limine si sono persi: Dino Campana, Artaud, Poe, Bacon, Pollock e quanti da questo limine ne sono emersi: Bob Wilson e Alda Merini per far pochi esempi. Ma cos’è l’Art Brut? Direi che la migliore definizione di questo fenomeno l’ha data Michel Thevoz: «un’arte completamente senza padri, liberata da qualsiasi modello derivante dalla tradizione o dalla moda, liberata soprattutto da qualsiasi compromesso sociale, un’arte indifferente al consenso degli iniziati, un’arte che procede dalla febbrile agitazione mentale e da una necessità interiore quasi autistica». Questa è l’Art Brut, ma dovrebbe essere detto di ogni opera d’arte e opera artistico che si rispetti. Per questo si è voluto presentare il progetto L’arte di fare la differenza, ideato da Anna Maria Pecci e curato dall’Associazione culturale Arteco in collaborazione con il Comune di Torino e il Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino: in questo contributo il progetto verrà illustrato da Gianluigi Mangiapane che come rappresentante del Museo fa parte dello staff che ne ha realizzato la prima e la seconda attuale edizione. Questo tipo di esperienza artistica ci porta a riconsiderare l’arte non come un fatto di mostra di sé ma come evento essenziale, da svolgersi con la cautela e il coraggio del funambolo per sorvolare l’abisso, per non cadere nell’abisso. Un fenomeno che non può scadere nell’ovvio, nel normale, nello scontato, deve essere sempre un atto che sfida le certezze e si spinge in zone non illuminate con tutti i rischi che comporta. Come diceva Jean Dubuffet, padre nobile dell’Art Brut, frequentatore di artisti e manicomi: Ciò che ci si aspetta dall’arte non è di certo che sia normale. Ci si aspetta invece – pochi forse potrebbero contraddire questo giudizio – che sia il più possibile inedita e imprevista. Ci si aspetta anche che sia fortemente immaginativa. Dopo quanto si è detto, fanno sorridere le accuse rivolte a talune opere di essere troppo impreviste o immaginative perciò destinate a essere relegate nel settore di un’arte patologica. La cosa migliore, la più coerente, consisterebbe nell’affermare, in definitiva, che la creazione artistica, dovunque si manifesti, è sempre e in ogni caso patologica». Enrico Pastore
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