Solo perché una mostra è gratuita non significa che sia necessariamente mediocre: la retrospettiva dedicata all’intera opera della fotografa americana Janis Groover (1943-2012), detta “Jan”, smentisce in ogni caso tale facile pregiudizio.
Questa fotografa e insegnante di arti plastiche è paradossalmente un po’ dimenticata, anche se le sue nature morte hanno svolto un ruolo importante nella storia del riconoscimento istituzionale della fotografia a colori; la Groover, tuttavia, ha ottenuto una prima retrospettiva newyorkese al MoMA nel 1987 e il suo lavoro ha influenzato alcuni dei suoi ex studenti, come Gregory Crewdson e Philip Lorca DiCorcia. A questo proposito, la mostra monografica 2019, dal titolo “Laboratorio di Forme”, si distingue tanto per la diversità delle opere esposte quanto per la cura dedicata alla loro valorizzazione. Una tale buona riuscita in realtà non è un caso e si spiega con la combinazione di circostanze favorevoli: il Musée de l’Élysée sta per trasferirsi in una nuova sede, l’istituzione di Losanna ha dunque colto l’occasione per esporre una collezione che ha ricevuto in eredità nel 2017 dal pittore e critico d’arte Bruce Boice, marito di Jan Groover. In possesso di un Master of Arts, Jan Groover abbandona definitivamente la pittura per la fotografia nei primi anni Settanta. In effetti è nel 1971 che produce quella che considera la sua “prima foto seria” con una SLR Pentax 35 mm: si tratta di un piccolo dittico in bianco e nero (“senza titolo”), la mucca che appare nella prima immagine è nascosta da un rettangolo bianco nel secondo cliché. In un altro dittico, questo processo viene mimeticamente riproposto con la piccola macchia di un aereo nel cielo. Fin dall’inizio della sua carriera di fotografa, Jan Groover assume chiaramente un approccio formalista che perseguirà con una certa coerenza, pur provando una ricorrente insoddisfazione nei confronti dei risultati ottenuti, che la porterà a instaurare regolarmente delle rotture in seno a questo approccio concettuale. È quindi possibile interpretare queste rotture estetiche come un rimettersi personalmente in discussione. Nel segnare il passaggio al colore (new color photography), l’inizio della cui serie si conferma con Semantic of the Highway (1973), la fotografa cerca sempre di stabilire un protocollo preciso prima di passare alla sua realizzazione concreta. Così, per un trittico del 1975 (“senza titolo”), Jan Groover ha deciso di fotografare un veicolo rosso, poi uno giallo e infine uno blu; ha poi aspettato che questa sequenza si verificasse rigorosamente nell’ordine predeterminato, fotografando i veicoli da un punto di vista fisso, circostanza che rafforza l’impressione di movimento. La nozione di messa in scena si situa già al centro del modo in cui Jan Groover concepisce le sue fotografie; questo principio di rappresentazione sarà trasposto nella realizzazione di nature morte, prima con la Kitchen Still Lifes (1977-1980), dove figurano utensili domestici, verdure e piante, e poi con Tabletop Still Lifes (1982-1986), nella cui composizione entrano oggetti in miniatura, tra cui alcuni più figurativi (angioletti, ecc.), che sono stati spesso dipinti prima in bianco o in nero. In tutti questi “dipinti fotografici”, il rapporto delle proporzioni tra le forme rimane importante, perché pur appiattendo gli effetti della profondità, l’immagine ottenuta conserva tuttavia sempre una dimensione di astrazione. Nel frattempo, nel 1979, l’artista americana aveva scoperto il suo interesse per la vecchia tecnica di stampa fotografica in platino e palladio, tornando così alle stampe monocromatiche. In termini di riferimenti pittorici, le nature morte di Jan Groover potrebbero ricordare le combinazioni di vasi e bottiglie dei dipinti di Giorgio Morandi, ma le sue fotografie continueranno ad evolversi per trasformarsi anche in teatri in miniatura, che evocano piuttosto le scene dipinte del Quattrocento. Tuttavia, la rottura più importante nella carriera di Jan Groover coincide certamente con l’elezione di Bush senior alla Casa Bianca nel 1988: la coppia Groover-Boice decise di andare in esilio in Francia, voltando le spalle all’ambiente culturale newyorkese. Ma poco prima di lasciare gli Stati Uniti, la fotografa si fa costruire una copia di una banquet camera, vale a dire una macchina fotografica di grande formato, come progettata all’inizio del XX secolo per immortalare scene di gruppo. Il trasferimento nel villaggio di Montpon-Ménesterol, nella Dordogna, l’ha spinta a dislocare parte del suo “laboratorio delle forme” verso l’esterno, utilizzando una zona del suo giardino come studio fotografico all’aperto - quello che lei chiamava desert studio. Jan Groover ha dato così inizio all’ultima parte del suo lavoro, che è anche il meno conosciuto, nel 1989. Grazie alla collezione Jan Groover in possesso del Musée de l’Elysée, questa vasta retrospettiva merita anche per la diversità degli approfondimenti che è in grado di offrire sulla vita della fotografa. Scopriamo in effetti non solo altri aspetti del suo lavoro - come i suoi paesaggi industriali, ritratti e nudi –ma anche l’importante collezione di fotografie di proprietà di Jan Groover e Bruce Boice; inoltre riuniti in una delle sale, ci sono i diversi oggetti che entrano nella composizione delle nature morte, delle apparecchiature fotografiche, così come tutto il materiale necessario per lo sviluppo e le stampe fotografiche. È quindi anche concretamente che ci viene offerto di scoprire sia lo studio che il laboratorio di Jan Groover. Francis Kay
Francis Kay
Version française
Ce n’est pas parce qu’une exposition est gratuite qu’elle rimera forcément avec médiocrité; la rétrospective consacrée à l’ensemble du travail de la photographe américaine Janis Groover (1943-2012), dite «Jan», fait en tout cas mentir ce préjugé assez facile. Cette photographe et enseignante en arts plastiques est paradoxalement un peu oubliée, bien que ses natures mortes aient joué un rôle important dans l’histoire de la reconnaissance institutionnelle de la photographie en couleur; Groover a pourtant bénéficié d’une première rétrospective new-yorkaise au MoMA en 1987 et son travail a influencé certains de ses anciens étudiants, comme Gregory Crewdson ou Philip Lorca DiCorcia. À cet égard, l’exposition monographique de 2019, intitulée «Laboratoire des formes», se distingue autant par la diversité des œuvres exposées que par le soin apporté à leur mise en valeur. Une pareille réussite ne doit en fait pas grand-chose au hasard et s’explique par la conjonction de circonstances favorables: le Musée de l’Élysée étant actuellement sur le point de déménager dans de nouveaux locaux, l’institution lausannoise en a profité pour mettre notamment en valeur un fonds légué en 2017 par le peintre et critique d’art Bruce Boice, qui fut le mari de Jan Groover. Étant elle-même détentrice d’un Master of Arts, Jan Groover abandonne définitivement la peinture pour la photographie dès le début des années septante. C’est en effet en 1971 qu’elle produit ce qu’elle considère comme sa «première photo sérieuse» avec un appareil 35 mm, un Pentax SLR: il s’agit d’un petit diptyque noir-blanc («sans titre»), la vache qui apparaît sur la première image étant cachée par un rectangle blanc sur le second cliché. Dans un autre diptyque, ce procédé est reconduit de façon mimétique avec la petite tache d’un avion dans le ciel. Dès le début de sa carrière de photographe, Jan Groover assume donc clairement une démarche formaliste qu’elle va poursuivre avec une certaine cohérence, tout en éprouvant une récurrente insatisfaction dans les résultats obtenus, ce qui la mènera à instaurer régulièrement des ruptures au sein de cette approche conceptuelle. Par conséquent, il est possible d’interpréter ces ruptures esthétiques comme autant de remises en cause personnelles. Marquant le passage à la couleur (new color photography), le principe de la série se confirme avec Semantic of the Highway (1973), la photographe cherchant toujours à établir un protocole précis avant de passer à sa réalisation concrète. Ainsi, pour un triptyque de 1975 («sans titre»), Jan Groover a décidé de photographier un véhicule rouge, puis un jaune et enfin un bleu; elle a ensuite attendu que cette séquence se produise rigoureusement dans l’ordre prédéterminé, photographiant les véhicules depuis un point de vue fixe, ce qui renforce l’impression de mouvement. La notion de mise en scène se situe alors déjà au cœur de la façon dont Jan Groover conçoit ses photographies; ce principe de représentation va être transposé dans la réalisation de natures mortes, d’abord avec les Kitchen Still Lifes (1977-1980), où figurent des ustensiles ménagers, des légumes et des plantes, puis avec les Tabletop Still Lifes (1982-1986), dans la composition desquels entrent des objets miniatures, certains étant plus figuratifs (angelots, etc.), qui ont souvent été d’abord peints en blanc ou en noir. Dans tous ces «tableaux photographiques», le rapport des proportions entre les formes demeure important, car en aplanissant les effets de profondeur, l’image obtenue conserve cependant toujours une dimension d’abstraction. Entretemps, dès 1979, l’artiste américaine avait découvert son intérêt pour l’ancienne technique d’impression photographique au platine et au palladium, revenant ainsi aux tirages monochromes. En matière de références picturales, les natures mortes de Jan Groover pourraient rappeler les agencements de pots et de bouteilles des tableaux de Giorgio Morandi, mais ses photographies vont aussi continuer d’évoluer pour se transformer en théâtres miniatures qui évoquent plutôt les scènes peintes du Quattrocento. Toutefois, la rupture la plus notable dans la carrière de Jan Groover demeure certainement l’élection de Bush senior à la Maison-Blanche, en 1988: le couple Groover-Boice décide alors de s’exiler en France, tournant le dos au milieu culturel new-yorkais. Mais, juste avant de quitter les États-Unis, la photographe se fait construire la réplique d’une banquet camera, à savoir une chambre photographique grand format, telle que celle-ci a été conçue au début du XXe siècle pour immortaliser des scènes de groupe. Puis l’installation dans le village de Montpon-Ménestérol, en Dordogne, l’incite à transférer une partie de son «laboratoire des formes» vers l’extérieur, en utilisant une partie de son jardin comme un studio photographique à ciel ouvert – ce qu’elle nomme son desert studio. Jan Groover va entamer ainsi, dès 1989, la dernière partie de son œuvre, qui est aussi la moins connue. Grâce au fonds Jan Groover que détient le Musée de l’Élysée, cette ample rétrospective vaut enfin par la diversité des éclairages qu’elle est en mesure de proposer sur la vie de la photographe. On y découvre en effet non seulement d’autres aspects de son œuvre – comme ses paysages industriels, ses portraits et ses nus, mais aussi l’importante collection de photographies possédée par Jan Groover et Bruce Boice; par ailleurs, on y retrouve, rassemblés dans l’une des salles, les objets disparates qui entrent dans la composition des natures mortes, certains des appareils de prise de vue, ainsi que tout le matériel nécessaire aux tirages photographiques. C’est donc aussi de manière formelle qu’il nous est proposé de découvrir à la fois l’atelier et le laboratoire de Jan Groover. |
Fotografia
Un pittorialismo fotografico: l’arte di Francesco Ragno tra forme e geometrie. di Alessandro Rizzo L’art brut diventa arte grezza e
flusso di coscienza tempestoso nelle cromaticità visionarie di Marie-Claire Guyot. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
di Yves Klein. di Alessandro Rizzo |
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Bruna Monaco, Francesco Panizzo.
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Maurizio Oliviero, Francis Kay, Bruna Monaco, Francesco Panizzo.
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