Viaggio alla scoperta della
Biennale d’Arte di Venezia 2017
The horse problem - Umanity problem
Biennale d’Arte di Venezia 2017
The horse problem - Umanity problem
Articolo di Francesco Panizzo
Sono giunto alla Biennale d’arte di Venezia pieno di aspettative sapendo che ogni esposizione ha le sue proposte ben diverse da sottoporre allo sguardo di molti, spesso troppi occhi. Questa edizione ha diviso in due proposte ben distinte la propria creativa funzione sociale. Potrei parlare di molti anni 60/70 visti qui e là alla Biennale, soprattutto nel luna-park (nemmeno dadaista) che nei padiglioni dei Giardini è possibile esperire, ma perché dovrei? Gli articoli si sprecano soliti con quelle ciabattate quattro frasi a definire i numeri e l’affluenza della specie anche per questa edizione lagunare. Preferisco distinguere il senso delle opere viste all’Arsenale, arte ‘guerrigliera’, dove anche il padiglione Italia è stimolo per la conoscenza, rispetto a quanto visto ai Giardini, dove forse sono arrivato troppo carico di informazioni importanti rispetto a quanto vissuto lì. Ma al di là degli omaggi a De Martino e al morboso rapporto con la Chiesa che il nostro paese deve per fortuna (e mai stancamente) continuare a rimarcare attraverso le opere degli egregi Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò, Adelita Husni-Bey, preferisco esulare dalle riproposizioni di un ammuffire conosciuto, benché finemente descrittive, e trattare di un’opera stupefacente e imperiosa, allo stesso tempo amata o bistrattata che trovo emblematica e importante. The horse problem, Il problema del cavallo di Claudia Fontes:
È allora il fordismo a Venezia: nel 1300 si produceva una barca al giorno. Ritrova il trambusto del seriale bellico il cavallo di Claudia Fontes che dall’Arsenale argentino migra in quello della Serenissima vivendo lo stesso spasmo esistenziale lungo la narrazione del suo valore. Un’opera che relaziona l’istinto animale di sopravvivenza a quello sopraffattore dell’uomo, quella forma della colonizzazione che l’umanità ha sempre portato nel suo grembo. La ‘clava kubrickiana’ della scimmia potentosa che scaglia il suo volere di sopraffazione contro i suoi simili è l’idea colonizzatrice che pesa sulle basse, pure pulsioni animali del nobile quadrupede, senza sublimarle e costringendole al facile isterico sfogo. The Horse Problem esposto dall’artista Claudia Fontes è l’opera tra le più interessanti, narrative e descrittive che a Venezia si può ammirare dei nostri tempi e al di là del tempo stesso. Supera le epoche parlandoci di quella attuale ispiratale dall’opera La vuelta del Malòn (The return of indian raid) di Ángel Della Valle che ci riflette l’umano/disumano, dai tempi dei tempi fino a oggi. Il quadro prodotto nel 1892 narra di un ratto barbarico visto come sfregio contro la civiltà. Stimolata dalla donna dormiente sopra al cavallo e dal cavallo bianco dall’occhio spaurito, l’artista ci narrà della morte di una Nazione o della civiltà aprendo al contempo a una probabile speranza. Il peso della storia soffoca e spazientisce l’animalità spontanea dell’intera umanità. Il cavallo usato anche come arma da molti eserciti nella storia è simmetricamente la barca e il cannone stesso che l’uomo, attraverso il suo volere di conquista, ha da sempre utilizzato per dimostrare agli altri, dunque a se stesso, che la civilizzazione è il fine e la causa dei suoi mali. In quest’opera, di fatto, causa e sintomo si susseguono fondendosi: è il problema del cavallo da risolvere per noi e il problema del cavallo che egli stesso si deve risolvere. Un titolo dentro al titolo. Una umanità addosso a un’altra umanità. 400 pietre di lì appese non sono a simbolizzare le palle di cannone volanti ma sono le palle di cannone prima ancora di una loro simbolizzazione. Sono il peso della storia. Una ragazza a grandezza naturale ferma l’irruenza spaventosa della bestia, del Kong trasformato dalla bionda (America) e ammansito, mutato magicamente dal cuore della giovane e non dalla sferza arrogante del dittatore di turno. Con una mano davanti agli occhi per esulare dal transfert e l’altra, alterata, sul muso dell’equino alto 5 metri trasforma, spezzandola, questa catena di causa ed effetto.
L’opera della Fontes placa il cavallo (quello metaforico che è in ognuno di noi) dandogli una possibilità di speranza: il ragazzino che, alle spalle della giovane, guarda un sasso e lo studia cercando di capire se deve lanciarlo, assecondando le proprie pulsioni, o trasformarlo scegliendo di sublimare potenze e impotenze verso un nuovo futuro e finalmente diverso dal consueto refrain della storia. Siamo noi incoscienti osservatori quel ragazzino. Studiamo la situazione sociale e l’opera della Fontes come egli studia il sasso. L’artista lega il mondo identitario della propria Nazione alle sorti dell’umanità intera, sia per temi trattati attraverso le proprie estetiche che per coincidenze oggettivamente altre dalla sua volontà, come il luogo di installazione dell’opera uguale fra continenti d’oltreoceano seppur così lontani nello spazio: gli arsenali. Quest’opera è una cannonata al petto di per sé. Ho letto vari articoli su questa proposta artistica e quella che davvero mi ha colpito inutilmente e che prevedibilmente avrei incontrato nella ricerca è quella del non artista e banale critico Francesco Bonami il quale chiude ogni speranza per quella evoluzione dell’umanità che l’artista vuole stimolare nell’interlocutario. Bonami scagliando la sua pietra/giudizio priva di ogni ascolto colonizza dalla sua miopia ogni terra del sapere lasciando dietro di sé il deserto dove in solitudine si metterà a osservare l’ombra della propria ignoranza mentre aspetta altri Tartari come lui che mio malgrado osservo arrivare. Mi tocca, infine, dare ragione a Sgarbi quando cerca di aprire la testa a quell’imbecille (dall’etimo: debole) del critico Francesco Bonami insegnandogli che: “Il piacere della conoscenza preclude quello della preferenza”, basta con i mi piace o no. Di questa eterna opera Bonami non ha intrapreso nessun sentore quando la definisce ‘mostruosa’ nel senso della chiacchiera da bar del termine prima ancora di quanto sia rilevante in realtà la mostruosità dell’umanità denunciata dalla Fontes con questa enorme apertura alla conoscenza, la quale precede la narrazione stilistica, in sincope rispetto allo sparo di sindromi stendhaliane nello sguardo dello spettatore. In tutto il Padiglione Argentina è risuonata la classicità di una visione. In questo senso la Fontes è stata davvero mostruosa. Francesco Panizzo
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Fotografia
Un pittorialismo fotografico: l’arte di Francesco Ragno tra forme e geometrie. di Alessandro Rizzo L’art brut diventa arte grezza e
flusso di coscienza tempestoso nelle cromaticità visionarie di Marie-Claire Guyot. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
di Yves Klein. di Alessandro Rizzo |
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Francesco Panizzo.
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