Il passaggio della luce, da splendore dei corpi o lux, a chiara luce degli occhi o lumen, non avvenne nel mondo in cui se ne posero le premesse, il mondo greco. Lì le aggettivazioni, ormai fattesi sempre più astratte, erano ancora concepite in una forma di potente concretezza: l’ira di Achille non è che un demone divino! Certo è, che la luce è il simbolo della cultura greca classica: enfasi geometrica nella matematica, di-visibilità della visibilità, vedere se stessi vedere. La metafisica di Platone è scrittura dell’anima infatti, o rugiada di luce.
Nel mondo antico greco c’era dell’imbarazzo verso la vista fissa e distaccata che s’avviava a dominare. L’ansietà per il visivo era un’ansietà per il porsi fuori dal cerchio, fuori da quell’intorno definito dal suolo della terra, dall’orizzonte in un tutto tondo e dalla cupola del cielo, un’arcaica geografia chiusa che non si lascia possedere, semmai si può esserne posseduti per thauma, meraviglia. La scrittura del corpo la frequenta nella sua immediata rivelazione, persegue i suoi inviti nel loro orizzonte naturale, li raggiunge, li consuma e si consuma con essi. “Onde con la terra scorgiamo la terra, con l’acqua l’acqua, con l’etere l’etere divino, con il fuoco il fuoco struggitore, con l’Amore l’Amore, con la Contesa la Contesa dogliosa.” Empedocle temeva quella luce, che fissa essenze sopra effimere apparenze, di “gente a due teste” diceva. I presocratici tentarono in ogni modo che l’esperienza sacro-alchemica del mondo non andasse perduta. Il discorso parmenideo sulle menti affollate da figure e invenzioni, che distraggono e allontanano le immagini risonanti, che si producono nell’intimità costitutiva che abbiamo con le superfici dell’ambiente, è ancora attuale. La vista distaccata avrebbe assorbito il mondo del fuori nel mondo del dentro, potenti astrazioni soppiantato l’essere in situazione. Protagora nel dire l’uomo è metron, non intendeva certo misura (di tutte le cose), ma termine, pienezza, punto culminante, fuoco, ricettacolo di eventi irreversibili, irriducibile a una forma individuata, spazio mosso come l’acqua e la fiamma. Ovunque io vada un orizzonte separa la terra dal cielo, un orizzonte, che pur nascosto da accidentalità irregolari, è sempre là; non è uno spazio posizionale, è uno spazio topologico, su di esso si disegnano i bordi che hanno senso per l’attraversamento; bordi entrano ed escono di vista, superfici occluse si fanno occludenti. Nella prospettiva del moto, l’unica vera invarianza è quella del sopra e del sotto, cupola del cielo e suolo accidentato, i quali non è mai dato che ruotino, né che si capovolgano. Ogni orientamento è un patto concluso anticamente tra il corpo umano e la terra, il cui moto è sempre e comunque lineare, a una dimensione, su una superficie, a due dimensioni. È con la prospettiva quattrocentesca che ci si confronta per la prima volta con un’assenza nel campo della visione, il vanishing point, che non appartiene allo spazio della rappresentazione; situato sull’orizzonte, è perpetuamente spinto fuori, nella nuova scena influente del vuoto. Fa così la sua comparsa una teoria dell’aria, di corpi nel vuoto. Lo sguardo figurativo pittorico, votato all’ossimoro dell’istante pregnante, che nella realtà non resiste, si trastullerà nelle manipolazioni retoriche della messa in vista dei corpi, dall’ellissi (escludere, sottacere, sbiadire, alleggerire) all’enfasi (caricare, sottolineare), perché sua è l’operazione della rievocazione, attribuire strutture figurative al mondo. Lo sguardo topologico, invece, d’una land art, o arte della terra, e dell’architettura, che sono l’esperienza stessa del mondo, prima che aggiungersi come grafie su di esso, fiuta le minime tracce, non sorvola sui dettagli che rivelano l’impressione d’insieme, perché esso si fonda su altra operazione, il riconoscimento, la conoscenza pulviscolare, che è additiva, fatta di rinvii e riverberazioni. È con delicata maestria, nella rassegna espositiva di installazioni temporanee di land art, “Art in the Dunes”, sulle fragili e meravigliose dune della spiaggia di Punta Penna, all’interno della Riserva Naturale di Punta Aderci a Vasto, che otto giovani artisti hanno saggiato questo luogo straordinario di interludi, di cui via via si perdono i brani. La rassegna di quest’anno, alla sua settima edizione, riflette, difatti, sulle seduzioni ancestrali che trattiene la filosofia presocratica, per la quale la natura del pensiero non si scinde dalla natura della sensazione, proprio per questo non essere noi separati dal mondo dal quale siamo circondati. Nell’esposizione di questa scrittura in situ, si profilano subito le relazioni di inclusione, come le valli che sono annidate all’interno delle montagne, gli alberi all’interno delle valli, le foglie negli alberi. Debora Vinciguerra, nella sua opera, “Parterre”, posa sulla tipica vegetazione di questa natura incontaminata e selvaggia vasi, in terra cotta o cruda, in apparenza insignificanti, quasi invisibili nei loro colori, ma che annidati nella tessitura del terreno invece molto riverberano con l’aria, con l’acqua che potrà riempirli ed evaporarvisi. Nell’opera “131 luoghi” di Massimo Desiato, le forme dell’acqua emergono lievemente dalle depressioni del terreno, ché “l’acqua come l’amore si infila tra i denti, si fa strada nel sangue, nelle ossa, sotto la pelle e alla fine esce da tutte le parti”.
L’opera rivela come anche le stelle possano essere localizzate per la loro inclusione in una costellazione e come anche nella pioggia di stelle in cielo si celino annidamenti. |
Fotografia
Un pittorialismo fotografico: l’arte di Francesco Ragno tra forme e geometrie. di Alessandro Rizzo L’art brut diventa arte grezza e
flusso di coscienza tempestoso nelle cromaticità visionarie di Marie-Claire Guyot. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
di Yves Klein. di Alessandro Rizzo |
In questo sguardo a eclissi, su cose che fanno la loro apparizione per poi scomparire, giustapponendosi le une alle altre in modo additivo, come i suoni del resto, in un annidarsi sempre rinnovato, l’opera di Michele Montanaro, “Flammae”, 10 specchi a forma di vesica piscis o mandorla mistica, che al tramonto si incendiano in un rosso fuoco, rivelano le “Mutazioni del fuoco: in primo luogo mare, la metà di esso terra, la metà vento ardente.” (Eraclito, fr. 31). In modo strabiliante, in questa installazione, si fa avanti il clou dei ragionamenti presocratici: non siamo una forma, ma un impeto, non qualcosa di articolato, ma di fuso, un’intonazione dell’ambiente. L’essere altrove del centro rispetto all’Io è costitutivo, l’io fluttua nell’opacità dello specchio d’acqua tanto da profondarsi con essa in un abbraccio, nonostante l’immaginaria sua pretesa di muovere, che gira a vuoto, perché non garantita dalla luce, quell’evento di sospensione, che eroticamente prende tempo per meglio possedere.
Natalia Anzalone
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Francesco Panizzo.
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