Psychodream Review
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Raccontare la città non è facile. È un mostro da mille facce, un organismo che si sviluppa senza progetto, dall’interazione di migliaia di vite che perseguono ognuna i propri obbiettivi, spesso contrastanti e antitetici; luogo geografico che si espande, inglobando dentro di sé luoghi preesistenti, configurazioni preesistenti, paesaggi reali e immaginari. Quando pensi di aver colto il bagliore della sua anima essa è già fuggita altrove, cantando un’altra storia, assumendo una nuova identità. Calvino nelle sue Città invisibili scriveva: «Finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città». Potremmo dire che Drama Sound City è una sorta di applicazione di questo principio. Forme e immagini che si susseguono, accompagnate dalla musica avvolgente, calda e suggestiva di Ozmotic.
Tre performer sono distesi su pacchi di cartone, questi cartoni diventano come pezzi di puzzle che disegnano uno skyline, e il disegno viene abitato, ricostruito, in luoghi angusti dove i performer devono stendersi, accoccolarsi, rannicchiarsi per esserne inglobati e partecipare alla sua conformazione. Moduli uguali, elementi frattali che si espandono e contraggono creando infinite forme abitabili. A volte congrue, a volte no. Poi il buio. E dal buio piccole luci ovulari, che si dispongono come costellazioni, passando da vari stadi alternati di ordine e disordine. L’occhio nell’oscurità cerca le luci e si dimentica del buio vastissimo che circonda quelle piccole uova luminose. E poi delle lunghe stecche flessibili, che mosse veloci creano onde visive che si intersecano, si sovrappongono, onde che generano frequenze e visioni mai uguali a se stesse. Gli elementi di scena si susseguono cosi come i paesaggi: delle cornici diventano una sorta di loculi da cui emergono nuovi personaggi, le stesse cornici un condominio, e infine degli schermi su cui si proiettano ombre di figure umane, che contraendosi diventano forme astratte, perdendo le caratteristiche di soggettività, e distendendosi ridiventano umane ma con qualcosa di minaccioso. Gli attori non rappresentano personaggi. Sono esecutori che si mettono al servizio degli oggetti. Lasciano parlare i paesaggi e le forme senza aggiungere. Un’esecuzione puntuale, precisa, come di lavoro quotidiano, di tecnici adibiti a traslochi e smontaggi. Le forme non hanno bisogno di aggiunte. Hanno una propria lingua, ed è quella lingua che racconta la città. Non disturbano i racconti in voice off che ogni tanto emergono nella trama sonora. Non sono illustrazione di niente. Dicono delle cose che possono o meno appartenere all’immagine. Ogni paesaggio sorge dalla cooperazione degli esecutori. Non vi è data mai formazione caotica o simultanea. La città si crea tutti insieme, benché sembri che ognuno agisca per sé. Uno spettacolo avvincente. Un trip visivo convincente e appassionante, forse troppo bello, nel senso che trasudano bellezza senza che il suo contrario rientri nello schema. Non vi è quasi luogo oscuro, brutto, osceno. Eppure la città possiede anche questi aspetti. Questo spettacolo, per qualche ragione mi ricorda quelli de Il Conde de Torrefiel, come uno specchio che riflette un’immagine positiva dal negativo. Se nel caso degli spagnoli non c’è quasi spazio per una speranza, per un piccolo fiotto di luce che possa illuminare l’oscurità che ci assale, nel caso di Stalker non vi è spazio per il contrario anche se lo si avverte leggero sullo sfondo. Se devo trovare un difetto è la struttura a numeri chiusi, lineare. A un’immagine ne sussegue un’altra, in maniera ordinata, senza sovrapposizioni e fughe. Piccoli percorsi che si chiudono in sé stessi, esaurendo la propria funzione. Ma questo è un po’ cercare il pelo nell’uovo. Enrico Pastore
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