Si affacciano due elementi che risultano essere gli ingredienti poetici di un’arte, quella fotografica, non sempre considerata disciplina estetico visiva autonoma, quale la pittura o la scultura: un elemento risalta nella serie della bipersonale Inni urbani. Verso le periferie di Cecilia Canzian e di Nadia Zoller, ossia la formazione professionale, entrambe architette ed entrambe attente ad analizzare gli spazi urbani nella loro dimensione; un altro elemento riguarda la padronanza tecnica, ossia la capacità di valutare le variabili funzionali alla realizzazione dell’opera nel suo complesso.
Non possiamo liquidare le autrici come pure artiste di forme realistiche raggiunte attraverso la fotografia che diventa mero reportage e diario di prospettive urbane: nella serie Inni urbani Cecilia e Nadia procedono oltre al mero dato fattuale ritratto e riescono a convogliarci in una concezione astratta, e universale, di città e di metropoli, tanto da dettagliare nelle figure, linee e forme, prospettive altre e utili a mostrare il senso, significante, intrinseco di costruzione e di vivere in un contesto urbano, nella serie Milano. Il chiaroscuro ci addentra in un’atmosfera estetica unica e importante nel risaltare i dettagli, il generale, quell’universale che comprende il dettaglio, che tende al particolare, la fotografia di Cecilia, così come il particolare, il dettaglio che diventa il soggetto dell’opera, che tende al generale, la fotografia di Nadia: il bianco e nero affascina, alcuni potrebbero considerarlo erroneamente come pretesto per rendere l’immagine più intrigante, ma nella serie bipersonale Inni urbani diventa quello strumento, possiamo considerarlo come fosse un pennello o una matita, che aiuta a definire i contorni e a calibrare le luci in modo da filtrarle o renderle, invece, evidenti e aperte quando occorra aggiornare la visione, illuminandola per meglio concederci la conoscenza della figura rappresentata. Cecilia e Nadia conoscono bene gli spazi e gli ambienti, con essi ci lavorano soprattutto quando devono progettare visioni abitative urbane in cui la persona possa essere al centro di uno sviluppo armonico, una città che possa essere vista come una realtà non logisticamente identificabile e non temporalmente considerabile, elevando la stessa a concetto allegorico da considerare come parametro valutativo utile a confrontare i modelli esistenziali attuali con le contraddizioni di un presente. Non è un caso se la serie si definisca Inni urbani, dal momento in cui si palesa quella poetica che conduce la mano e l’obiettivo delle autrici, riuscendo a immortalare scenari di una bellezza unica, reperendo la bellezza anche in quei caseggiati urbani magari alienanti, quelli periferici e di quartieri dormitorio. L’esperienza artistica di chi scientificamente interpreta le forme e gli spazi rende sempre l’opera completa in due aspetti inscindibili: uno scientifico, appunto, ossia la ripresa, ferma, di una figura che diventa oggetto concreto e tangibile di studio, centrale nella sua semplice apparenza, un altro di stampo puramente umanistico, ossia la lettura che liricamente si evidenzia non oltrepassando il nostro sguardo ma soffermando lo stesso sull’opera fotografica e facendoci accompagnare dalle non pretenziose autrici nell’immaginare scenari e prospettive altre in giochi di forme che si stagliano in modo ora iperrealistico, ora realistico, in un’altra dimensione. Parlo di autrici non pretenziose in quanto Cecilia e Nadia lasciano lo spettatore libero nell’apprezzare il messaggio che può provenire, messaggio puramente estetico e visivo, senza nessuna caratura funzionale e strumentale che renda la fotografia solo oggetto veicolante di denunce sociali o di narrazioni di verità drasticamente proposte. Il reale c’è nelle fotografie di Cecilia e Nadia: gli edifici sono reali, così come lo sono le varie geometrie che ci fanno addentrare in prospettive altre, geometrie con cui, seppure non maliziosamente, giocano le autrici rendendo parti di edifici figure geometriche seriali, oppure sovrapposte, senza tradire lo sguardo sul reale, da cui trarre la poetica della narrazione della città e, in particolare, delle periferie della città. Gli inni urbani diventano, quindi, portatori di dimensioni altre in una dinamica di ripresa dell’obiettivo fotografo unica e assoluta, andandoci a concedere quegli spazi di immaginazione del narrato fotografato negli interstizi che si aprono nelle prospettive di un reale semplicemente rilevato e rivelato, da cui indicare un percorso di riflessione, magari esistenziale e concernente il vivere oggi la periferia, questioni che ci aprono dinamiche concettuali di grande portata e utili a indagare il ruolo e l’identità di una città nel presente e nel futuro come dimensione di condivisione degli spazi: di quegli spazi che sono gli elementi primari di un reale plastico e tangibile e su cui le autrici lavorano regalandoci, qui l’aspetto che rende la serie artisticamente rilevante, una visione estetico compositiva utile e funzionale a suscitare nello spettatore sensazioni fondamentali, attraverso la semplice inquadratura e la ripresa dell’oggetto urbanistico, la città, gli edifici e i quartieri, senza ritocchi che alterino e diverisifichino l’immagine, quella purezza della fotografia e quella sua immediata comprensione, perché parte integrante di un immaginario conosciuto, luogo, qui la ricerca del bello che si appresta a diventare significante, ricco di occasioni di indagine di una visione altra, iperreale, che ci conduce in prospettive inattese e dense di suggestioni. Alessandro Rizzo
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Un pittorialismo fotografico: l’arte di Francesco Ragno tra forme e geometrie. di Alessandro Rizzo L’art brut diventa arte grezza e
flusso di coscienza tempestoso nelle cromaticità visionarie di Marie-Claire Guyot. di Alessandro Rizzo Georg Schrimpf:
da un espressionismo di un nuovo realismo alla dimensione magica di una nuova oggettività. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
di Yves Klein. di Alessandro Rizzo Un esempio di architettura integrata: la Fondazione Maeght.
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