:«C’è una cosa che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico»
Marcel Duchamp Zero non è niente. Zero è la massima potenzialità. Zero è il numero del Matto nei tarocchi, la carta di chi avanza verso l’abisso, lo sguardo verso l’orizzonte, la sacca e il bastone del viandante e un cane che gli morde i calcagni quasi a impedir l’andare verso un dove sconosciuto perché la carta non ha paesaggio né orizzonte.
Zero è una performance piena di questo nulla, di ciò che non ha determinazione e quindi può esser qualsiasi cosa. Il suono per esempio, questi soffi e respiri, son quelli di Kantor, i silenzi tra una parola e l’altra, mentre registrava alcune di quelle parole che hanno segnato indelebili la scena. I respiri tra le parole, quelli che nessuno calcola. È la parola ciò che importa! La parola del Maestro! E invece Paola Bianchi sceglie quei respiri tra due mondi, quei suoni che raccolgono la fatica di aver detto e preparano con nuova forza il dire che ancor non è. Ma, come dice Paola Bianchi, Zero non è uno spettacolo su Kantor. E come si potrebbe? Ciò che Kantor faceva accadere sulla scena apparteneva solo a lui, alla sua vita, i suoi ricordi, i suoi fantasmi, i suoi oggetti provenienti da quella realtà dal rango più basso che lo affascinava. Una Generatio Aequivoca che non era rappresentazione né interpretazione. Era un prendere vita delle cose e delle persone come nei racconti di Bruno Schulz, in cui nel pieno mistero della vita che si autogenera non vista, e crea drammi cosmici, deflagranti efflorescenze incontrollate, misere, devastanti, caleidoscopio di possibilità non prese in considerazione, scartate, messe là nell’angolo perché in qualche modo non degne di attenzione. Questo in fondo è Zero di Paola Bianchi: un viaggio alla ricerca di quei corpi e di quegli oggetti abbandonati in una soffitta, oggetti e corpi che danzano e parlano senza esser visti, nel vuoto cosmico tra i granelli di polvere che lenti si depositano su di loro. Un lento deambulare di quei manichini pieni di vita, via di mezzo tra un morto vivente e uno spaventapasseri, quel camminare incerto di essere tra la vita e la morte, in quell’eterno confine tra un aldilà e un aldiquà, in quel confine pieno di spasimi, di afflati, di sussurri che dicono tutto senza dir nulla. Zero è un’esperienza che nulla ha a che fare con l’estetica. Se qualcuno pensa di andar a vedere uno spettacolo che rappresenta un momento di svago, stia pur a casa. Zero è un dramma, di quelli veri, di quelli tosti. Il dramma dell’esserci prima di sparire. Esserci e agire, sotto una luce tenue per un momento, un istante colmo di tremule potenze che scuotono l’aria prima di ritornar nel buio. Ci si strugge a veder quel vecchio sul fondo, con il suo bastone, camminar a fatica, tra i sussurri, verso non si sa dove, forse solo a girar in tondo senza un perché, forse nel pieno di un’intenzione così forte da sfuggir alla morte e all’esser dimenticati. E quella figura che danza scomposta, come un manichino a cui si son rotte le membra o un burattino a cui si sono intrecciati i fili. E quelle cose là? Quelle abbandonate sul palco, non in una discarica dove il cumulo può almeno significar la fine di una funzione, no abbandonate nel vuoto nero del palco, prive di appigli, di funzioni, di assenza di funzione, nel semplice esser lì con le loro mute domande. Zero è tutto questo. Non parla di Kantor, ma Kantor nel vederlo, magari seduto su una vecchia sedia a bordo del palco, avrebbe sorriso, scorgendo un orizzonte da lui a lungo percorso e attraversato. Poi si sarebbe alzato e senza dir nulla, come una delle sue figure, se se sarebbe andato nel buio del retropalco, senza salutare nessuno. PROVE DI ABBANDONO è azione coreografica di e con Paola Bianchi e stralci di lettura dal romanzo educarsi all’abbandono _ frammenti mutili, a opera dell’autore Ivan Fantini. Enrico Pastore
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