L’ambito quotidiano ha sempre avuto un fascino particolare per l’arte. Pensiamo, così per fare un piccolo esempio, a La lattaia di Vermeer: il semplice gesto di versare il latte da una brocca, l’intensità e la concentrazione che rifulgono da un’operazione quasi automatica e ripetuta. E pensiamo a Warhol, a quei suoi interminabili film in cui il quotidiano è lì, sotto la lente della macchina da presa, studiato nei minimi particolari diventando arte senza averne l’intenzione: Eat, Kiss, Sleep. Il mistero che si cela giusto dietro il sottile ma resistente velo dell’abitudine. Quanti artisti nel Novecento, hanno cercato di squarciare questo velo, di indagare ciò che nella vita di tutti i giorni riteniamo fin troppo banale per porvi attenzione.
Il senso delle cose sta dietro alla polvere, non sfugge a questa attrazione verso il gesto comune. Esso diventa l’asse portante della coreografia che si forma e si dipana dalla trasformazione di una serie di gesti quotidiani, a volte in maniera ironica e significativa, altre volte in maniera incompleta e approssimativa, come se il gesto quotidiano fosse solo un pretesto comico o accessorio e non un elemento di metamorfosi e trasformazione per sfuggire alla sua potente attrazione. Il lavoro è ancora in progress e siamo quindi fiduciosi che ciò che oggi è difetto, troverà la via per essere elemento di potenza e significanza. Il maggior pregio del lavoro è senza dubbio la multifocalità. Non esiste un centro dell’azione che si svolge ovunque dipanando svariate e simultanee linee di sviluppo. Da ultimo una piccola riflessione sull’uso della parola nella danza, soprattutto in quella che tende verso il cosiddetto teatro-danza. Ora: il peggior difetto del teatro, che tutto il Novecento riformatore ha cercato di emendare cercando di sfuggirvi, è stato la sudditanza dell’azione alla parola. Rappresentare un testo, un immagine pregressa all’azione scenica, ma anche semplicemente a una significanza che sta prima di ciò che avviene sulla scena. Una ribellione costante per tentare di agire senza dover dipendere. Dire sfuggendo al testo, al racconto. Il teatro-danza nei suoi migliori esiti ha colto il pericolo di assoggettare la libertà e l’astrattezza della danza all’imperio della parola, che è elemento potentissimo, dall’alba dei tempi avvertito come magico, (ricordiamo per inciso che la parola di Dio crea il mondo non solo nella nostra cultura). Ma tale potenza magica ha anche il malvagio potere di assoggettare e schiavizzare il movimento libero del corpo, se non si è accorti nell’utilizzarla e nel padroneggiarla. Dico questo perché in Il senso delle cose sta dietro la polvere, le parole fanno cadere troppo spesso il gesto nella rete del voler dire, del voler significare quanto detto, depotenziando un danzare e un agire, che altrimenti libero, avrebbe sicuramente maggior effetto. Ma come detto il Collettivo Insoliti è una compagnia giovane, nata dalle ceneri del festival omonimo, e che avrà, speriamo, tutto il tempo di formarsi, di migliorarsi perché formare una compagnia numerosa è, in questi giorni tristi, un atto di coraggio. In un mondo culturale dove sembra ci sia posto solo per soli e duetti, monologhi e azioni singole, provare a far esistere una realtà formata da una dozzina di elementi è una sfida che spero possa risultare vincente. Da ultimo ricordiamo che insieme a il senso delle cose sta sotto la polvere, sono stati presentati due brevi soli della danzatrice Midori Watanabe coreografati da Laura Corradi. Il primo Swan solo ispirato al Lago dei Cigni di Caikovskij, il secondo Butterfly solo alla Madama Butterfly di Puccini, dove si presenta una versione alternativa e ribelle al suicidio di Cho Cho San. Enrico Pastore
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