Un’ossessione diventa elemento creativo indifferibile e indefettibile nella produzione artistica di un autore che afferma, attraverso le proprie opere, poetiche ed estetiche compositive proprie e a lui rimandabili, riconoscibili nella propria valenza: Stefano Ronchi elabora grandi protagonisti della letteratura artistica ridefinendoli e riproponendoli in un’ottica attuale del linguaggio visivo e dei codici alfabetici artistici. Stefano disegna, incide e propone attraverso la sapienza descrittiva del particolare e del microscopico figure appartenenti a un mondo, universo, gotico, immerse in paesaggi favolosi, astraendoci dalle dimensioni reali, dai riferimenti che ci possano portare nell’esistente, chiedendo allo spettatore di intraprendere un viaggio onirico, fantastico, in dimensioni immaginifiche, in paesaggi nordici, freddi, ma non tangibili, inverosimili.
Stefano diventa, nel suo genere e nella sua coerenza compositiva, espressione di un confronto eclettico con diversi stili e diverse narrazioni estetiche: assume su di se la sapienza di un grafico illustratore per accedere all’immensa potenzialità che il panorama cromatico e artistico compositivo gli concede, esprimendo ideazioni e paesaggi dai contorni quasi conturbanti, fortemente espressivi, accogliendo la bellezza e la semplicità visiva di un espressionismo fantastico e surreale. Le sue opere sembrano immagini di una successione narrativa di un sogno, quasi incubi perturbanti, destrutturanti, come ogni dimensione onirica effettua e garantisce, elementi che evocano oggetti esistenti, ma che si ripropongono in contesti confusi, illogici, in visioni e prospettive quasi inesistenti, perché differenti, scomposte e molteplici, tali da creare una spirale estetica che ci attrae e ci conduce in un gioco in cui viene richiesta una complicità poetica con l’autore, astraendoci dalle convenzioni imposte e tradizionali di certo figurativo e di accomodanti e rassicuranti panorami descrittivi del reale. Le immagini che vengono proposte da Stefano, che passa all’utilizzo dell’acrilico come ne Il malintenzionato, si esplicano in simboli e illustrazioni di figure di un passato medioevale nella propria valenza incantevole e di una dimensione fatata, magica quanto incantata di una serie di fotogrammi di un surrealismo non ipotizzabile, ne verificabile. Stefano continua e prosegue, e’ necessaria in questo una dose di grande sapienza compositiva, lato tipico di una produzione che non si accontenta di una semplice passata di pennello, magari anticipata da un sostrato illustrativo grafico, ma che richiede tempo, pazienza e grande attenzione, non lasciando margine a un ripetersi di errori e di incertezze elaborative: il microscopico diventa suggerimento estetico visivo di opere che potrebbero essere ascrivibili a un filone realistico magico, pur individuando nella contaminazione di forme espressive artistiche moderne e post moderne, il repertorio fumettistico e del videogioco come videoarte filmica, senza utilizzare quegli strumenti che lo sviluppo tecnologico ci consente, ma elaborando le proprie rappresentazioni con la sola forza, e impeto, compositivo dettato e offerto dal pennello, dai colori e dalla matita, dalla penna e dall’inchiostro. Stefano ama giocare e confondere, quasi fondendole e aprendo scenari inattesi e irreali, forme architettoniche e geometriche in contesti urbani, dove si concentrano personaggi vari e figure umane improbabili, le une scisse dalle altre in una babele caotica quanto ingarbugliata. Il realismo magico torna principe nella sua valenza e prevalenza estetica compositiva in The green elephant e in The chameleon, quasi portandoci nella nostra visione l’immagine di animali appartenenti a una narrazione fantastica, fiabesca, irreale, surreale, mistica quanto mitologica, un bestiario di animali immaginari, che viene descritto attraverso la potenza cromatica di tinte decise e, allo stesso tempo, particolari e dettaglianti un insieme di figure che, nella loro evocativa portata, ci rende consapevoli di essere davanti a rappresentazioni bislacche e stravaganti, riprese dal reale oggettivo ma, come ogni composizione magica reale ci insegna, paradossale, inimmaginabile. Esiste un lato grottesco che Stefano propone attraverso la produzione dell’immagine umana: un lato che si assapora in un’opera quale Carnevale, dove prevale la maschera e una dimensione priva di logica prospettica, un assurdo che si eleva a verisimile, ingannandoci nel turbine che il tratto della penna, il segno dell’inchiostro sulla carta suggerisce. Assurdità e normalità, onirico e verisimiglianza, inimmaginabile e ipotizzabile, surreale e reale: in queste categorie dicotomiche si inserisce la produzione di Stefano, messaggi di significanti estetici che solamente attraverso la decisa saturazione delle tinte e della venature cromatiche intense e l’ossessione per il dettaglio microscopico, lavora attraverso la lente di ingrandimento per non lasciarsi sfuggire nessun tipo di particolare minuto e minimo, in una prospettiva aerea, come suggerirebbe uno dei suoi grandi maestri, Leonardo da Vinci, possono proporsi. La verità del colore e delle forme si elevano in una verticalità unica che fanno delle opere di Stefano ipotesi di ricerca di una terza dimensione prospettica, le parti inferiori e di base del paesaggio urbano, fusione di visioni architettoniche che ci rimandano a spazi atemporali e razionali di un De Chirico o di un Depero, si evidenziano, anche attraverso il tratto risoluto di pennellate di colore forte e pieno, e prevalgono sulle parti superiori dell’opera, rimandandoci a giochi di prospettive e ottiche varie e complesse. Stefano definisce con la penna e con il pennello una distorsione dello spazio e del panorama paesaggistico urbano, concedendosi a quella tradizione surrealista, pur imprimendo un proprio lato autoriale inconfondibile e attualizzato, attraverso una tecnica dei colori, vivi e vivaci, che proviene dai maestri del Rinascimento. Stefano mostra il lato tenebroso e ambiguo della fantasia onirica celebrata in una visione contemplabile e fiabesca: la tecnica diventa per l’autore strumento puro che gli può garantire, come un sillabario o uno spartito musicale, le parole e le note che compongono esteticamente le opere che va a elaborare, dopo una produzione ponderata, continua ricerca sperimentale nella coerenza compositiva. Il surrealismo, che si celebra nelle città di un passato remoto medioevale dai contorni favolosi e, nello stesso tempo, inquietanti per la loro portata meravigliosamente disordinata, si avvale di quelle caratteristiche poetiche che caratterizzano questa corrente, come Ernst, altro maestro, così lo definisce Stefano, insegnerebbe: la liberazione da convenzioni sociali, nelle opere di Stefano si esplica a livello estetico compositivo nella sua scelta di alterazione e di falsificazione del reale in inquadrature prospettiche improbabili, seppure risultino essere reali nei loro rimandi a dimensioni urbane, superando la realtà stessa, qui il secondo dato inestinguibile del surrealismo del sogno, per giungere a quell’automatismo psichico, terzo aspetto, da cui promana come un fiume in piena il procedere del pensiero senza limitazioni, senza autocensure, senza inibizione e, soprattutto, senza imposizioni dettate dalla tensione di apparire e di essere esteticamente accomodanti. Alessandro Rizzo
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