Il ritrattismo può scadere, spesso, in una ripetizione stanca e sterile di canoni classici, già elaborati dalla letteratura artistica: accademiche visioni che si ripropongono, spesso come esercizi didattici, spesso come mera revisione senza nessun afflato personale autoriale di immagini già elaborate e proposte da produzioni di correnti e artisti del passato. La produzione di Belinda Biancotti, in esposizione dal 7 marzo al 24 marzo, all’interno della collettiva, Attestazioni - Corpo contemporaneo, curata da Romina Sangiovanni presso la Galleria Plaumann di Milano, non incorre in questo pericolo, pur nel suo proporsi nel solco di una corrente culturale e di una modalità compositiva ben chiara, ma discostandosi dalla stessa, attraverso un suo proprio lavoro di elaborazione, di produzione, passaggi attenti e oculati, ponderati quanto successivi nella loro progressione, e attraverso un’ideazione che si traduce in estetiche figurative dal forte valore incisivo che inducono a indagare, in una chiave introspettiva unica, il volto, il corpo nelle sue pose, la plasticità quasi scultorea dell’immagine umana, intrigante, sensuale in molto aspetti, coinvolgente.
Si rimane in contemplazione davanti a opere come Eva, un’intensità sensuale si esplica nella centralità verticale della figura, in un gioco che chiama lo spettatore a indagare nelle pieghe dell’essere umano, soggetto che diventa metafora, allegoria di un significato, che si fa significante estetico, e che attraversa il punto di vista dell’osservatore in una condivisione di rimandi a percorsi culturali storici e artistici che affondano la propria impronta in favole antiche e in miti passati, donando all’opera nel suo complesso un’aurea di neoclassicismo per l’espressione e la posizione in cui si presenta. In Eva notiamo sobbalzare quasi, per la propria capacità incisiva impressionista e iperreale, il viso di un giovane ragazzo dai lineamenti delicati, dallo sguardo accattivante quanto ingenuo, dalle labbra carnose e, come rubino, segno di bellezza universale, nella cui mano sinistra, ponendo le braccia in una posizione utile a evidenziare le linee e i contorni, delicati e decisi, del fisico, vediamo una mela, simbolo della perdizione, e che indossa un grembiule, lato ironico quanto moderno, con disegnato il busto di donna con un serpente che lo avvolge ai fianchi. La mela che in modo provocante quanto naturale e diretto la figura del giovane ci porge, invitandoci a peccare, diventa elemento di indagine e di forte introspezione, quasi espressionista, su una base compositiva generale iperreale: l’impostazione dell’opera, dallo sfondo delicato e tenue di una tinta armoniosa ottenuta con pennellate ripetute che rendono la tempera a olio quasi liscia e pastosa, riesce a mandarci oltre, nei dettagli perfetti con cui l’autrice ritrae i suoi soggetti, al dato tangibile, visibile, superficiale quanto fisico. Torniamo alla serie di Belinda e ci soffermiamo su diverse opere della sua produzione figurativa iperrealista, la cui intensità di colore e di cromature, semplici, nitide, nette, avvolgenti la tela nella sua totalità, in stesure che si susseguono ma che si amalgamano nella loro portata, Belinda procede nella definizione della sua tela prima attraverso una griglia, poi il disegno e, infine, giungendo all’elaborazione delle pen- nellate che si adagiano sulla tela, riempiendola, rendono come prospettive di coni ottici o come gioco di calibratura delle tinte, quasi fossimo in tanta letteratura rinascimentale, la figura umana centrale, quasi più vicina allo spettatore, rispetto agli elementi, pochi, minimali, che contornano essa. Osserviamo, cosi, Mangiafuoco, citazione nel soggetto della favola di Collodi, Pinocchio, utile strumento di indagine e di conoscenza di lati del nostro essere umano, di ognuno di noi, della complessità dell’animo umano, della contraddittorietà che si basa su una visione di superficie, l’apparente espressione burbera e truce della figura, in cui si cela un comportamento bonario, vulnerabile, suscettibile di commozione e di compassione, umana sensibilità: il ritratto figurativo in Belinda e un pretesto per addentrarci nelle pieghe dell’animo umano, fonte di emozioni e sensazioni utili ad avvertire il soggetto nella sua integrità, non solo fisica, ma interiore. Belinda risulta eclettica nella sua formazione e nella sua produzione, cosi come diverse sono le citazioni artistiche a cui l’autrice rimanda, affermando una propria e ampia conoscenza della pittura: notiamo una dose di caravaggesche illuminazioni, interni o luoghi aspaziali, che vanno a dettagliare e descrivere non solo le pieghe anatomiche del viso, le linee e i contorni del corpo, adagiato come una Venere di Botticelliana memoria su un divano, giocando molto con la fisicità ripresa nella propria naturalezza e nudità, come in Tainted Love, in cui si ripropone l’ambiguità, come si era riproposta attraverso le labbra rappresentate nella loro tinta rosso carminio, espressione di vitalità e sensualità, parliamo di Eva, cosi come quel senso di contrasto nel significante, come si può celebrare nella contrapposizione tra un corpo legato da catene e una scritta su di esso che afferma di essere libero, I’m free, nell’omonima opera. L’iperrealismo di Belinda riassume una formazione fatta di esperienza tecnico compositiva che ricalca l’impressionismo, molti sono i paesaggi naturali proposti nelle sue opere e che sembrano quasi appartenere a tanta produzione di grandi autori statunitensi dal realismo virtuoso e immediato, realizzati tramite un lavoro, è ciò che ama fare l’autrice, eseguito all’aperto o, comunque, con alcune condizioni atmosferiche, in determinate situazioni ambientali e stagionali in cui la luce può maggiormente suggerire, attraverso una propria naturalezza vivida, una propria capacità di incisione e di descrizione, come fosse un pennello, il fisico nella sua completezza. Belinda, si vede, ascolta i soggetti, spesso sono essi che propongono una loro rappresentazione attraverso citazioni mitiche, mitologiche, fantastiche e fiabesche. L’ascolto diventa talmente fondamentale nell’ispirazione dell’autrice che porta la stessa a indagare nell’interiorità degli elementi, nell’essenzialità della figura che si evidenzia tramite la sua semplice espressione. Belinda riceve ispirazioni in ogni luogo, suggerendole non solo idee e soggetti da realizzare, ma anche il modo di comporre e produrre le opere, in una certezza e fermezza della sua mano e del suo procedere nella realizzazione dell’opera: coerenza culturale artistica ed elaborativa, accompagnata da una dose di narrazione estetica intrisa di contenuto, immediato nel suo proporsi, che non lascia spazio allo spettatore a interpretazioni secondarie e altre, ma che lo pone difronte alla vividezza e, allo stesso tempo, intensità del soggetto posto in un contesto non identificabile, spesso ricreato con un’unica tinta cromatica, tale da donarci non solo la centralità dell’immagine, ma anche il suo infinito propagarsi, come onde visive, nel nostro cono ottico visivo. Alessandro Rizzo
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